Ci sarai sempre per me?
- muoniguido
- 17 giu
- Tempo di lettura: 12 min
Aggiornamento: 18 giu

Questo - nel profondo del cuore - è ciò che tutti (più o meno consapevolmente) ci domandiamo riguardo al nostro partner: ci sarai sempre per me?
E dalla risposta che ognuno di noi sente di poter trovare dipende in gran parte il modo in cui viviamo e diamo forma alle nostre relazioni.
Tutto ciò rimanda ai temi dell’attaccamento ossia a quella spinta motivazionale innata che porta tutti noi a cercare la prossimità fisica con qualcuno che ci possa far sentire al sicuro e che ci possa dare conforto quando ne abbiamo bisogno.
Si tratta di un’esperienza antica, un’esperienza che abbiamo imparato a conoscere già nei nostri primi due anni di vita.
In questo periodo precoce - secondo John Bowlby (il padre della Teoria dell’attaccamento) - sulla base della qualità delle relazioni che abbiamo vissuto con chi si è preso cura di noi abbiamo sviluppato delle rappresentazioni interne sul mondo e su noi stessi.
Si tratta - è importante precisarlo - di rappresentazioni implicite, di schemi relazionali non consci (Bowlby li chiama MOI, vale a dire Modelli Operativi Interni); sulla base di questi modelli - dicevo - siamo portati ad organizzare in maniera tendenzialmente stabile il nostro rapporto con gli altri.
Vediamo meglio in che senso.
Se la figura che si è presa principalmente cura di noi l’abbiamo percepita come sufficientemente accessibile e responsiva, vale a dire come fisicamente vicina, raggiungibile e capace di sintonizzarsi con noi, così da poter rispondere in maniera adeguata ai nostri bisogni, allora - dicevo - questo ha fatto sì che nel tempo sviluppassimo un atteggiamento di fiducia nei confronti del mondo (leggi del prossimo) e parallelamente una visione positiva di noi stessi come soggetti meritevoli di ricevere quelle attenzioni.
Quando questo accade il tipo di attaccamento che ne deriva è detto sicuro.
La persona che lo possiede tendenzialmente ha un’immagine positiva del mondo e di se stessa, è capace di riconoscere efficacemente i propri bisogni più intimi, è capace di chiedere assistenza quando ne ha bisogno e di ricevere l’aiuto quando le viene spontaneamente offerto.
A questo tipo di attaccamento si associano anche caratteristiche empatiche e una buona capacità nella gestione delle proprie emozioni.
Non sempre però le cose vanno in questo modo, non sempre cioè i nostri caregiver vengono percepiti come sufficientemente capaci di svolgere la loro funzione accudente.
In questi casi l’attaccamento che ne deriva è definito di tipo insicuro (nella due varianti chiamate rispettivamente ambivalente ed evitante).
In verità è stato identificato anche un quarto tipo di attaccamento, il cosiddetto attaccamento disorganizzato.
Quest’ultimo fa riferimento ad una condizione nella quale la figura di attaccamento è stata abusante, trascurante o spaventata/spaventante.
In questi ultimi casi il bambino ha vissuto un conflitto irrisolvibile: da un lato, il sistema motivazionale innato dell’attaccamento lo portava a cercare la vicinanza del caregiver per essere rassicurato; dall’altro, quello stesso caregiver era proprio la persona che gli incuteva il timore che lo angosciava.
A seguito di queste esperienze traumatiche l’attaccamento non ha potuto trovare nessuna forma di organizzazione, neanche di tipo insicuro.
Quest’ultima forma (quella disorganizzata) è quella maggiormente disfunzionale e rappresenta un importante fattore di rischio transdiagnostico per lo sviluppo di psicopatologia in età adulta.
Per la precisione l’identificazione dei primi tre stili di attaccamento (sicuro, insicuro ambivalente ed insicuro evitante) la dobbiamo a Mary Ainsworth, mentre l’identificazione del quarto stile (quello disorganizzato) la dobbiamo a Mary Main e Judith Solomon.
Tutti e quattro gli stili sono stati identificati per mezzo di una procedura sperimentale denominata Strange situation.
Si tratta di un’osservazione strutturata in laboratorio (ideata dalla Ainsworth nel 1969) che coinvolge bambini fra i 12 e i 18 mesi, i loro caregiver primari (in genere la madre) e un estraneo.
La situazione sperimentale è opportunamente predisposta per attivare il sistema di attaccamento dei bambini e osservare le modalità con le quali essi si separano e si riavvicinano ai propri caregiver.
Come si è detto, la procedura ha permesso di identificare quattro tipi di attaccamento:
Sicuro: il bambino protesta alla separazione dalla madre ma è facilmente consolabile al suo ritorno; esplora attivamente l’ambiente in sua presenza.
Insicuro ambivalente: il bambino appare molto angosciato al momento della separazione dalla madre; al momento del suo ritorno ne ricerca la vicinanza, ma è difficilmente consolabile; il suo comportamento è ambivalente: da un lato ricerca la madre ma, contemporaneamente, dall’altro mostra rabbia nei suoi confronti e la rifiuta.
Insicuro evitante: il bambino non appare particolarmente interessato al contatto con la madre; si mostra invece maggiormente orientato verso i giochi presenti nell’ambiente; non manifesta né angoscia né agitazione al momento della separazione da lei e tende ad evitarla al momento del suo ritorno.
Disorganizzato: il comportamento del bambino appare caotico, contraddittorio, non organizzato verso un fine; si possono osservare incoerenza, freezing, confusione.
Mette conto sottolineare che nei primi diciotto mesi di vita il nostro cervello è molto plastico, è fortemente modellabile.
Va da sé che le prime forme di interazione che viviamo sono importantissime, e infatti - ci dicono le moderne neuroscienze - esse costituiscono (fra le altre cose) le fondamenta della nostra capacità di regolare le emozioni.
Detto in altri termini: apprendiamo l’autoregolazione attraverso processi di co-regolazione.
In questo periodo così delicato - dicevo - le esperienze che abbiamo con i nostri caregiver di fatto cablano il nostro sistema nervoso, in particolare la sua parte autonoma.
Più precisamente: in questi primi scambi relazionali (ripetuti nel tempo) incomincia a definirsi l’ampiezza della nostra finestra di tolleranza, vale a dire quell’intervallo di attivazione del sistema nervoso autonomo all’interno del quale l’equilibro fra la parte simpatica e quella parasimpatica ci permette di regolare efficacemente le nostre emozioni, rimanendo connessi sia con noi stessi che con gli altri.
Maggiore è la nostra finestra di tolleranza, maggiore è la nostra capacità di reagire in maniera flessibile agli stimoli ambientali, e dunque maggiore è la nostra capacità di adattamento all’ambiente.
Un attaccamento sicuro (se non ci sono altri elementi intervenienti) correla con una buona finestra di tolleranza.
Per chiarezza espositiva ritengo utile ricapitolare quanto fin qui esposto con qualche ulteriore integrazione.
Sono stati individuati quattro stili di attaccamento, ciascuno - come si è detto - è correlato ad una specifica modalità relazionale fra bambino e caregiver.
Nell’attaccamento sicuro il caregiver è stato percepito come sufficientemente accessibile e responsivo.
Nell’attaccamento insicuro ambivalente l’aspetto dominante è l’incertezza: a momenti il caregiver è stato percepito come capace di dare conforto a momenti no; il suo comportamento è stato sperimentato come imprevedibile, incoerente, a tratti eccessivamente presente a tratti assente.
Nell’attaccamento insicuro evitante il bambino ha fatto esperienza di un caregiver non sufficientemente accessibile, poco responsivo o addirittura rifiutante.
Nell’attaccamento disorganizzato il caregiver è stato invece percepito come spaventante o traumatizzante.
La qualità di queste prime esperienze sono davvero molto importanti e in effetti esse costituiscono il prototipo delle nostre future modalità relazionali, anche in età adulta (seppure con le dovute differenze).
Nel caso di un attaccamento sicuro - ad esempio - tenderemo a sperimentare sicurezza in noi stessi e fiducia verso il prossimo, manifestando una relazione armonica fra autonomia e senso di appartenenza.
La finestra di tolleranza qui mostra un buon equilibrio simpatico/vagale a cui si accompagnano adeguate capacità di regolazione emotiva e resilienza.
Qualora invece il nostro attaccamento sia di tipo ambivalente mostreremo un’iperattivazione del sistema stesso, un’iperattivazione caratterizzata da ipersensibilità al rifiuto, ansia e ripetute oscillazioni nell’immagine che abbiamo dell’altro (percepito a tratti come emotivamente vicino a tratti come emotivamente distante).
Qui la finestra di tolleranza mostra fluttuazioni instabili fra la parte simpatica e quella parasimpatica, fluttuazioni accompagnate da rabbia, ansia e insicurezza
Nel caso di un attaccamento evitante tenderemo invece a manifestare una soppressione dei bisogni di contatto intimo e varie forme di autosufficienza difensiva.
Qui il ramo simpatico tende ad essere dominante e si osservano forme varie di ipercontrollo.
Qualora l’attaccamento fosse disorganizzato si avrebbe invece una sorta di collasso del sistema stesso, con manifestazioni di incoerenza, marcata disregolazione emotiva, dissociazione, comportamenti impulsivi o autodistruttivi.
Qui la finestra di tolleranza è nel caos.
Fra i quattro - come si è detto - questo è lo stile clinicamente più problematico.
È bene sottolineare tuttavia - ancora una volta - che non si tratta di situazioni immodificabili alla stregua di un destino ineluttabile rispetto al quale, una volta vissute certe esperienze, non possiamo più farci niente.
Giova ricordarlo: per quanto i MOI (Modelli Operativi Interni) siano tendenzialmente stabili non sono immodificabili, come d’altra parte sottolinea lo stesso Bowlby.
Ciò che sostiene la loro tendenza alla stabilità è il nostro bisogno di coerenza cognitiva che, in qualche modo, ci porta (inconsapevolmente, a volte anche a discapito del nostro stesso benessere personale) a ricercare situazioni relazionali che in qualche modo possano confermarli.
È questo ciò che tende a rendere gli schemi stabili nel tempo, ma si tratta - per l’appunto - solo di una tendenza, per quanto ben radicata.
Ne consegue che - al verificarsi di determinate condizioni - è possibile realizzare quello che viene chiamato un attaccamento sicuro guadagnato.
Ciò è possibile perché stabile (e non solo tendenzialmente) è la nostra tendenza innata a sviluppare legami di attaccamento, e infatti - per dirla ancora alla maniera di Bowlby - essa ci accompagna dalla culla alla tomba.
Ecco perché un cambiamento è possibile, e la psicoterapia rappresenta un’opportunità in questo senso (per quanto non sia l’unica).
Così pure la finestra di tolleranza può essere allargata (in un percorso di psicoterapia - fra le altre cose - ad esempio si fa anche questo).
Mi preme sottolineare che quanto fin qui esposto ha come unico obiettivo quello di fornire una maggiore conoscenza degli effetti (anche lungo termine) delle nostre prime interazioni con i nostri caregiver, così da fornire una maggiore comprensione della complessità delle nostre esperienze relazionali, comprese quelle attuali.
In alcun modo quanto fin qui esposto ha lo scopo di mettere sul banco degli imputati i nostri genitori.
Non è questo il punto. E perfino nel caso di esperienze traumatiche un approccio di questo tipo (soprattutto se rigido in tal senso) non sarebbe di grande aiuto.
Ora, senza addentrarci in quest’ultimo aspetto, perché richiederebbe una trattazione a parte, vorrei invece di nuovo sottolineare che l’obiettivo è quello di aiutare il lettore a riconoscere in sé certe tendenze e certi comportamenti nel momento in cui essi si presentano.
Il tema in questione - lo abbiamo detto - è il sistema motivazionale dell’attaccamento.
Al riguardo è stato sottolineato che, a seconda delle vicissitudini personali, si possano sviluppare differenti stili di attaccamento; è stato sottolineato anche quanto rilevante sia il modo in cui siamo stati in rapporto con i nostri caregiver soprattutto nei primissimi momenti della nostra vita.
Ebbene, prima di procedere oltre - per un senso di completezza - chiedo per un attimo al lettore di cambiare prospettiva di osservazione e di passare da quella del bambino a quella dell’adulto.
Essere genitori può essere un’esperienza meravigliosa, ciononostante - anche nel migliore dei casi - è un’esperienza difficile e molto complessa.
Ogni genitore nel momento in cui diventa tale ha già una sua storia di vita, ha una sua finestra di tolleranza già formata (a volte ampia a volte ristretta), può avere un partner accanto oppure no, il rapporto (quando c’è) può essere buono o conflittuale, ci possono essere altri figli oppure no, le situazioni sociali ed economiche possono essere molto varie, e questo per citare solo alcune delle possibili occorrenze.
Tutto questo per dire che riuscire ad offrire ai propri figli la sintonizzazione emotiva, il contenimento, la responsività, la giusta dose di frustrazione (sì, i figli hanno bisogno anche di questo), la prevedibilità e la sicurezza di cui essi necessitano non è per niente facile.
Non è un caso che Donald Winnicott (uno dei teorici della teoria dell’attaccamento) abbia introdotto il concetto di madre sufficientemente buona.
Non si tratta di essere perfette (o perfetti), ma di esserci.
Si tratta di rendersi conto di quando la connessione emotiva con i propri figli s’interrompe e di impegnarsi a ricostituirla, ogni volta.
I momenti di riparazione sono importanti tanto quanto quelli di connessione.
È questo ciò che alimenta la nostra fiducia di base; è sapere (anche e soprattutto nei momenti di allontanamento) che ci ritroveremo sempre, perché così è sempre stato.
Siamo così giunti al cuore della questione: questo bisogno dell’altro non lo abbiamo solo quando siamo piccoli, lo abbiamo anche da adulti.
Non solo: per essere degli adulti funzionali e realmente autonomi ci serve proprio avere anche una dipendenza funzionale.
Certo ci sono delle differenze fra l’attaccamento infantile e quello adulto.
Nel primo caso l’attaccamento è a senso unico (o tale dovrebbe essere, e quando questo non avviene si creano quelle dannose situazioni di inversione di ruolo fra genitori e figli che rendono questi ultimi maggiormente vulnerabili ad esiti psicopatologici).
Nell’attaccamento infantile è solo il figlio che chiede; il sistema di accudimento si attiva (o si dovrebbe attivare) solo nel genitore.
Nel secondo caso (in quello adulto) il sistema di attaccamento si attiva in maniera bidirezionale: entrambi i partner, quando serve, devono essere in grado reciprocamente di ricevere e di fornire sostegno.
Come forse il lettore avrà già intuito - e qui volevo arrivare - ogni volta che nell’adulto si attivano i bisogni dell’attaccamento contestualmente in lui si attivano e riverberano in qualche modo (più o meno consapevolmente) anche le esperienze dell’infanzia, con le rispettive modalità di adattamento ad esse associate.
I termini utilizzati per designare gli stili di attaccamento dell’adulto (a seconda dei modelli di riferimento) sono differenti da quelli finora illustrati; per semplicità qui utilizzo gli stessi utilizzati per l’attaccamento infantile.
E così - ad esempio - se uno dei due partner ha uno stile di attaccamento ambivalente e l’altro ha uno stile di attaccamento evitante, quando i reciproci bisogni dell’attaccamento si attivano, è molto probabile che entrambi inizino a danzare quella che Sue Johnson chiama la Polka di protesta.
Con questa espressione, che fa riferimento alla metafora del ballo, la terapeuta britannica indica una modalità interazionale disfunzionale nella quale uno dei due partner attacca mentre l’altro si ritira.
I passi dell’uno stimolano i passi dell’altro.
Non importa chi inizia e chi segue, ciò che conta è che (in maniera circolare) i passi dell’uno elicitano i passi dell’altro.
Più uno attacca, più l’altro si ritira (e viceversa).
Una cosa sarebbe di immenso aiuto per la felicità di entrambi i danzatori (e per la salute della loro relazione); sarebbe per loro di immenso aiuto - dicevo - comprendere che, nei momenti in cui danzano la polka, il nemico non è il partner, il nemico è la danza stessa, quella danza che, pur ballata con l’intento (inconsapevole) di proteggerli dalla grande paura che provano, tragicamente alimenta ed amplifica proprio la loro paura.
Vediamo meglio in che senso.
La paura a cui Johnson fa riferimento è la paura di perdere la connessione emotiva con il proprio partner.
Di fronte alla percezione di questa minaccia si possono attivare tutta una serie di comportamenti di protesta rivolti (nel loro intento) a ripristinare il legame che si ritiene perduto.
E così si possono osservare lamentele, critiche severe, giudizi sferzanti; o all’opposto allontanamenti, silenzi, chiusure in se stessi.
Tutto ciò - come si è detto - non fa che incrementare la paura, perché a seguito dei reciproci comportamenti di protesta ogni partner (in quei momenti) percepirà l’altro partner sempre più lontano.
E non è un caso, perché - guarda caso - i comportamenti dell’uno vanno a toccare (e ravvivare) proprio le antiche ferite dell’altro, e viceversa.
E così - ad esempio - le critiche severe mosse dal partner che non si sente sicuro riguardo alla continuità della connessione emotiva (attaccamento ambivalente) andranno ad elicitare nell’altro i comportamenti di chiusura ed allontanamento (attaccamento evitante) che quest’ultimo mette in atto quando teme che la propria base sicura non sia accessibile, raggiungibile o responsiva.
Il risultato è tragico, perché l’allontanamento dell’evitante rafforzerà le incertezze dell’ambivalente, così come le critiche severe di quest’ultimo alimenteranno il senso di inadeguatezza del primo e il suo timore di non essere accolto.
Trovo utile evidenziare - seppure molto brevemente - che quanto Johnson descrive in chiave relazionale, facendo riferimento alla teoria dell’attaccamento, in qualche modo lo si ritrova in chiave fisiologica anche negli studi Jaak Panksepp.
Quest’ultimo nelle sue ricerche sulle neuroscienze affettive ha infatti individuato nei mammiferi sette sistemi emotivi primari: SEEKING (Ricerca/esplorazione), RAGE (Rabbia), FEAR (Paura), LUST (Desiderio sessuale), CARE (Accudimento), PANIC/GRIEF (Panico/lutto da separazione), PLAY (Gioco).
Questi sistemi non sono il sostrato biologico “semplicemente” delle nostre emozioni, sono dei veri e propri programmi di azione neurale.
Ogni sistema modula una particolare risposta di adattamento all’ambiente.
E così - ad esempio - il PANIC/GRIEF che, come si può notare è distinto dal sistema FEAR (il quale si attiva di fronte ad una minaccia di pericolo fisico), si attiva - dicevo - in reazione alla perdita o alla separazione dai nostri altri significativi.
La sua attivazione è responsabile di quei vissuti di angoscia, di ansia e di tristezza che ci possono assalire quando siamo o ci sentiamo lontani dalle persone a cui vogliamo bene.
Ecco perché, per inciso - come opportunamente sottolinea Gianni Francesetti - non è corretto descrivere gli attacchi di panico come momenti di estrema paura; si tratta piuttosto di momenti di estrema solitudine, si tratta di veri e propri attacchi di solitudine.
Altrettanto significativo - come emerge dagli studi di Panksepp - è che l’esperienza del dolore fisico e quella del dolore da separazione abbiano come sostrato fisico alcune aree cerebrali in comune.
Questo è il motivo per cui quando ci facciamo male ci sentiamo anche un po’ più soli; ed è lo stesso motivo per cui la vicinanza e il contatto fisico di qualcuno (specie se è qualcuno a cui vogliamo bene) ci aiuta a gestire meglio il dolore, e in alcuni casi ci fa proprio sentire meno dolore.
Detto ciò mi avvio a concludere queste note sulla teoria dell’attaccamento.
Nel farlo segnalo con piacere il testo di Johnson Stringimi forte. Sette passi per una vita piena d’amore.
Qui il lettore interessato troverà non solo ulteriori approfondimenti riguardo agli argomenti trattati (soprattutto per ciò che concerne l’importanza del contatto fisico), ma anche utili indicazioni su cosa - fra le altre cose - viene fatto in terapia per aiutare le coppie a rapportarsi funzionalmente a quella domanda da cui siamo partiti.
E la cosa è di estrema importanza, perché - in fin dei conti - gran parte della nostra vita ruota proprio intorno a questa domanda: Ci sarai sempre per me?
Per chi ha piacere di approndire ulteriormente qui sul blog riporto anche i seguenti link:
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