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muoniguido

Con l'augurio di un buon anno



Nei tempi passati - raccontavano i nonni (e per certe cose ancora è così) - gli accordi venivano stipulati con una stretta di mano, e venivano onorati, perché la parola era sacra.


Qualcuno potrebbe far notare che nei tempi passati non tutte le persone avevano beni materiali da impegnare al momento dell’accordo e che, in effetti, per molti l’unico bene da poter presentare come garanzia era la propria parola.

Questa possibile osservazione - io credo - non toglie valore al racconto; anzi, gli conferisce maggior valore, se possibile, perché quella parola, per molti, rappresentava il proprio tutto.


In tempi non troppo lontani - dicevo - la parola era sacra e nella stretta di mano gli uomini riponevano reciprocamente il proprio onore, che (fra le altre cose) funzionava sia da collante che da lasciapassare sociale.

In entrambi i casi si trattava di una connessione costruita con la pratica quotidiana; una pratica fatta di gesti, di comportamenti, di tempi e di momenti condivisi; una pratica nella quale ci si guardava, ci si ascoltava, ci si toccava (senza timore).


Anche allora la vita non era certo un paradiso.

Anche allora esistevano tradimenti e lacerazioni sociali.

Anche allora i problemi, le incertezze e le difficoltà di vario genere mordevano i cuori della gente e ne insidiavano la carne, eppure lo sfondo relazionale era diverso (generalmente veniva percepito come più solido).


Questa è una delle cose che più mi sono sentito dire in questo anno di lavoro: “Dottore, alla gente non interessa nulla. Nessuno ha tempo per nessuno. Ognuno si fa i fatti suoi”.

Emotivamente toccato ho ascoltato queste parole.

In seguito - più di una volta - mi sono ritrovato a riflettere in generale sui legami sociali che viviamo in questo tempo storico.

Siamo perennemente online - mi sono detto - eppure patiamo il nonsenso della disconnessione quotidiana vissuta sulla nostra pelle.

Accanto all’eternità impersonale della rete (dove tutto è sempre e in ogni luogo) dovremmo riposizionare - pensavo - quel tipo speciale di eternità di cui l’uomo sa essere artefice.

Mi riferisco a quel senso di eternità inteso non tanto nel senso della durata materiale, ma in quello del vissuto emotivo e spirituale (per inciso sottolineo che non sto parlando di religione).


Questo particolare tipo di eternità - dicevo - è qualcosa che rimanda al nostro bisogno di sentirci speciali, al nostro bisogno di essere speciali per un altro, che a sua volta è considerato speciale per noi, e che continua ad esserlo (speciale) anche quando può non esserci più (per svariati motivi, compreso il più assoluto).

Tutto ciò è intimamente connesso a quella che viene chiamata fiducia di base.

Certamente possono finire (e finiscono) alcune relazioni, e certamente il livello di questo tipo di fiducia rispecchia le vicissitudini della vita di ciascuno; tuttavia, quello che invece permane è il fatto che l’uomo nasca con un’innata tendenza a stabilire relazioni speciali, sulla base delle quali costruisce la propria identità.


Ripensando ai questi ultimi tempi e alle varie contingenze vissute e patite credo sia salutare recuperare quel senso di permanenza che risplendeva in quelle strette di mano di cui si è detto.


Al freddo della paura - mi dico - occorre opporre il calore vissuto degli affetti.

Al nonsenso della disconnessione occorre opporre la fiducia della relazione costruita giorno per giorno con il fare umano.

All’amarezza della vergogna (intesa come il non sapere se nel mondo c’è un posto per noi, così per come siamo), occorre opporre come balsamo il dolce sapore dell’appartenenza e della connessione.


E allora, per quest’anno che viene auguro a tutti noi permanenza e connessione conservando ciascuno sullo sfondo la consapevolezza della domanda “Chi sono io?”.





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