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Sulla riconoscenza

muoniguido

Aggiornamento: 13 ott 2024



“Fra i paradossi della scuola stoica, secondo me, il meno sorprendente e il meno difficile da credere è questo: chi riceve di buon animo ha già reso il contraccambio. Infatti, poiché rapportiamo ogni azione all'intenzione, ciascuno agisce in proporzione alla sua volontà; e, poiché la pietà, la fedeltà, la giustizia e tutte le altre virtù sono già perfette in se stesse, anche se non è stato possibile tradurle in pratica, un uomo può mostrarsi riconoscente anche solo volendo esserlo”.

Così scrive  Seneca a proposito della riconoscenza.

Riporto questo passo del grande filosofo latino perché qualche giorno fa mi è tornato in mente durante un colloquio in studio.

In quell’occasione la persona con cui mi trovavo mi parlava della difficoltà che spesso incontra quando qualcuno le dona qualcosa.

Che si tratti di aspetti materiali o immateriali, in quei momenti, insieme ad un certo imbarazzo il pensiero che spesso l’accompagna - diceva - è il seguente: “E poi comunque penso subito a come poter ricambiare”.

Questo tipo di esperienza, pur con sfumature differenti, è più comune di quanto si creda.

Intendo dire che, imbarazzo a parte, sono tante le situazioni nelle quali possiamo avvertire un impulso che ci proietta già nel futuro, senza darci neanche il tempo di aver assaporato appieno ciò che sta accadendo nel presente.


Faccio un esempio.

Due conoscenti si incontrano al bar al momento della colazione. Dopo un breve scambio di parole, avendo consumato quanto aveva ordinato, uno dei due va alla cassa e paga il conto di entrambi. L’altro salutando il proprio “benefattore” accompagna i suoi ringraziamenti con frasi che vanno dal più comune “A buon rendere”, “La prossima volta faccio io” all’altrettanto diffuso “Non dovevi”, “Lascia fare a me” o qualcosa di simile.

A scanso di equivoci: non sto dicendo che queste siano le frasi che dicono tutti e che tutti le dicano ogni volta; non si può negare però che si tratti di situazioni e di scambi verbali abbastanza comuni, che proprio in virtù della loro diffusione ci permettono di trovare riferimenti concreti per meglio comprendere le riflessioni di Seneca.

“Non sarai mai riconoscente se non lo sei subito”, egli dice.

Il grande filosofo latino intende forse dire che, per essere riconoscenti, se ci viene invitata la colazione dobbiamo immediatamente invitare al nostro amico un altro croissant e un altro cappuccino?

No, niente affatto!

Proprio qui sta il punto: se vogliamo essere riconoscenti - scrive il nostro filosofo - primariamente dobbiamo ricambiare la disposizione d’animo della persona dalla quale riceviamo un beneficio. La disposizione d’animo, non la cosa ricevuta!

E infatti precisa Seneca: “Chi concede un beneficio che cosa si prefigge? Di aiutare colui al quale dona e di fargli piacere. Se ha realizzato ciò che voleva e la sua disposizione d'animo si è comunicata al mio animo, provocando una gioia condivisa, ha raggiunto il suo scopo. Egli, infatti, non voleva ricevere da me un contraccambio, altrimenti non sarebbe stato un beneficio, ma un affare”.


Se consideriamo la questione sotto questo punto di vista quel subito (il riferimento temporale contenuto nell’affermazione di Seneca) risulta ancora più pregnante.

E infatti quando possiamo essere maggiormente sicuri di avere la possibilità di sperimentare la gioia derivante dalla condivisione di una disposizione d’animo?

La risposta è semplice: nel presente della circostanza; perché ci siamo entrambi (sia noi che il nostro “benefattore”) e perché sappiamo che la situazione in quel momento potenzialmente ci consente di farlo.

Se non cogliessimo quell’occasione per ricambiare il beneficio ricevuto (cioè se non ci fermassimo sufficientemente nel presente tanto da cogliere il valore di quanto ci viene donato e la disposizione d’animo con la quale chi ci fa un dono fa quello che fa) correremmo il rischio - scrive Seneca - di affidare alla fortuna la possibilità di mostrare la nostra riconoscenza (nel futuro infatti non sappiamo cosa potrà accadere).

Pertanto - scrive ancora il nostro filosofo - “Accetta quel beneficio, accoglilo fra le tue braccia, gioisci, non perché lo ricevi, ma perché lo ricambi già e lo dovrai ricambiare in futuro; non correrai mai un pericolo così serio che una qualche circostanza ti possa rendere ingrato”.


“Ma come?” - potrebbe dire qualcuno - “Non si è fatto nulla e si è dimostrata la propria riconoscenza. In che modo è mai possibile una simile cosa?”.

Ad una tale legittima interrogazione risponde lo stesso Seneca, evidenziando il fatto che la parola “beneficio” (come tante altre parole) possiede una densità semantica in virtù della quale denota più cose fra loro differenti.

Nello specifico - scrive Seneca -  “beneficio” indica sia l’azione con cui si fa il bene, sia la cosa stessa che viene data con quell’azione”.

Al riguardo invito il lettore a tenere presente quanto esposto all’inizio di queste brevi riflessioni, e cioè che ogni azione deve essere rapportata all’intenzione con cui è essa messa in essere.

Fatta questa necessaria precisazione ritorniamo al cuore dell’intera questione.

Una cosa - dicevamo - è ricambiare una buona disposizione d’animo con un’altra disposizione d’animo ugualmente buona (così come accade ad esempio nell’amicizia, in un rapporto di parità); un’ altra cosa è ricambiare un bene materiale con un altro bene materiale.

Per quanto - come si è detto - il termine “beneficio” denoti entrambe le cose, nella prima accezione si fa riferimento ad un aspetto immateriale (è prettamente una questione d'animo), nella seconda accezione invece si fa riferimento ad un aspetto materiale, a qualcosa che, per certi versi, maggiormente si presta ad essere inteso e vissuto come un debito.

Alla volte possiamo essere così concentrati sul secondo aspetto (quello materiale) da perdere di vista il primo (quello che per sua natura, in quanto immateriale, è incorruttibile).

Tutto ciò può avere profonde ripercussioni sulle nostre vite.


Faccio un esempio.

Un’esperienza che più o meno tutti immagino abbiamo sperimentato nella nostra vita è la morte di qualcuno che ci ha molto amato.

Proprio per il grande amore che questa persona ha nutrito nei nostri confronti pensando a lei potremmo sperimentare due vissuti in qualche modo contrastanti: da un lato, la gioia per il bene ricevuto; dall’altro, il rammarico per non aver fatto altrettanto nei suoi confronti.

Questo secondo vissuto alle volte può essere così intenso e inquinante da relegare quasi del tutto il primo sullo sfondo.

Talmente presi dalla questione del debito potremmo finire - di fatto (e quasi inconsapevolmente) - per mettere in secondo piano quella del beneficio (così per come lo abbiamo fin qui descritto).

Preciso che, per quanto non tutti reagiscono alla morte di una persona cara in questo modo, si tratta tuttavia di vissuti piuttosto diffusi (soprattutto in determinate fasi del processo di elaborazione del lutto).

In simili occorrenze - dicevo - in secondo piano non va solamente il pensiero del beneficio ricevuto, ma anche la possibilità di renderci conto che forse per quel bene che ci è stato donato siamo già stati riconoscenti, semplicemente non ce ne eravamo accorti ancora (a sufficienza).

Giova ripeterlo: una cosa non esclude l’altra; possiamo essere già stati riconoscenti per il bene ricevuto e al tempo stesso possiamo desiderare di continuare a farlo, in altri modi, in altri tempi e a volte (in maniera traslata) anche nei confronti di persone differenti da quella da cui abbiamo ricevuto il  bene in questione.


Situazioni di questo tipo, a volte, si possono presentare anche in terapia.

Non di rado mi è capitato che mi venisse detto “Dottore grazie per quello che sta facendo per me, mi sta aiutando molto. So che è il suo lavoro, ma vorrei fare qualcosa per lei, vorrei poterla ringraziare”.

“Lo ha già fatto. Vedere che sta bene è un ottimo ringraziamento” - ho risposto tutte quelle volte.

Al riguardo qualcuno legittimamente potrebbe far notare che, svolgendo un’attività professionale, per i colloqui che faccio mi viene corrisposta una parcella.

È vero. E al tempo stesso - come abbiamo potuto appurare - questa è solo una parte di un intero più vasto.

Il lettore interessato può trovare qui ulteriori approfondimenti

Quello che intendo dire è che la questione della riconoscenza, con tutti i risvolti evidenziati da Seneca, è molto più presente nelle nostre vite di quanto apparentemente si potrebbe pensare (con tutto ciò che ne consegue).


Per quanto riguarda il colloquio con la persona di cui ho parlato all’inizio di queste riflessioni forse qualcuno è curioso di sapere come è andata poi a finire.

In realtà la cosa non è finita perché stiamo ancora lavorando insieme.

In particolare stiamo capendo che cosa nello specifico le rende difficile accogliere un dono, e soprattutto in che maniera si manifesta questa difficoltà (quali sono i pensieri, le sensazioni e le emozioni che l’accompagnano in quelle situazioni?).

In quei momenti - precisa - è spesso presente imbarazzo; e poiché ogni esperienza nella quale si prova imbarazzo è sempre un’esperienza relazionale, per poterla meglio comprendere questa esperienza, stiamo - nella sicurezza della relazione terapeutica - sperimentando ed esplorando come è per lei ricevere qualcosa da me (ad esempio il mio aiuto, il mio ascolto, la mia comprensione).

Questo ci sta permettendo di entrare in contatto anche con un altro punto che per lei è particolarmente sensibile e cioè con la possibilità (al momento non particolarmente praticata) di poter esplicitamente chiedere qualcosa.

Prendendo spunto dalle considerazioni di Seneca - che si sono rivelate utili e preziose - abbiamo pensato a delle situazioni (al di fuori delle nostre sedute) in cui potesse con altre persone sperimentare l’esperienza della riconoscenza.

Tutto ciò sta dando ottimi frutti.


Detto questo, concludo queste brevi riflessioni così come le ho iniziate, riportando ancora una volta le parole di Seneca.

“Vuoi ricambiare il beneficio? Accoglilo di buon animo: hai già dimostrato la tua riconoscenza, non tanto da ritenere di aver estinto il tuo debito, ma tanto da pensarci con più serenità”.




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