top of page
muoniguido

E tu… l’amore di chi sei?



Mia moglie, mio marito, mia madre, mio padre, mia sorella, i miei figli.

E ancora: il mio amico, la mia città, la mia terra.

La lista è lunga: ciascuno può completarla in base alla propria storia personale, alla propria esperienza e al proprio sentire del momento.

Considerate insieme all’aggettivo che le precede, tutte le parole elencate possono certamente - come sottolineano alcuni - rimandare a vissuti caratterizzati da un nefasto sentimento di possesso.

In linea con tali considerazioni potremmo dire che tali eventualità rappresentano l’aspetto mortifero della questione su cui propongo le riflessioni che seguono.

Oltre a queste eventualità - dicevo - ve ne sono però anche delle altre, le quali, a mio modo di vedere, rappresentano invece l’aspetto vitale della medesima questione.

Quest’ultimo aspetto, qualora fosse dimenticato o perduto, io credo darebbe luogo a delle conseguenze anch’esse mortifere (seppure in modi differenti) come lo sono quelle relative ai vissuti di possesso a cui ho precedentemente  accennato.

Dal momento che purtroppo (e tristemente) le cronache attuali hanno reso urgenti, e continuano a rendere urgenti, attente e opportune riflessioni (che già molti hanno fatto) sugli aspetti relativi ai nefasti vissuti di possesso sottesi all’utilizzo degli aggettivi possessivi in riferimento alle relazioni personali, in queste poche pagine desidero invece concentrare le mie riflessioni sugli aspetti vitali (così mi viene da chiamarli) sottesi, anche in questo caso, all’utilizzo dei medesimi aggettivi.

In questo senso - lo vedremo meglio fra un attimo - concentrerò le mie riflessioni non sul senso di possesso, bensì su quello somigliante (ma differente) di appartenenza.

A questo proposito sottolineo, per inciso, che tale scelta è motivata anche dal fatto che ciò che (come società) non vogliamo mi pare sia già molto evidente e abbondantemente ribadito a vari livelli, tanto nei media tanto nelle comunicazioni interpersonali.

Non altrettanto mi pare si possa dire rispetto a ciò che invece vorremmo  o vorremmo di più (come società e come singoli individui).

Ritengo che la cosa sia di particolare importanza perché, a dispetto delle buone intenzioni - come evidenziano gli studi di George Lakoff e Mark Johnson - “possiamo comprendere solo ciò che il nostro cervello ci permette di comprendere”.

Il motivo alla base di questa affermazione (e anche il motivo per la quale la riporto) è il seguente: ogni pensiero che esiste nella nostra mente esiste unicamente grazie al fatto che delle connessioni neurali si realizzano all'interno del nostro cervello; se quelle connessioni non si realizzano, quel pensiero, semplicemente, non si forma, e la comprensione di un dato contenuto ci è preclusa.

Immediatamente collegata a questa realtà biologica ve n'è un'altra, che ha enormi ripercussioni sulla nostra vita, sulle nostre convinzioni morali e sulle nostre azioni: più una connessione neurale viene attivata, più essa si rinforza; più si rinforza, più si attiva automaticamente, accrescendo la sua capacità di inibire altre connessioni in competizione con essa.

E così ad esempio - al di là delle buone intenzioni - più parliamo di violenza, possesso e mancanza di rispetto, più ci verrà facile pensare e in alcuni casi praticare simili contenuti.

Se mai ce ne fosse bisogno, ribadisco che - evidentemente - non sto parlando di cancellare in assoluto certe riflessioni, ma di bilanciarle con altre.

Detto più chiaramente: se vogliamo più rispetto, più amore, più appartenenza (fra un attimo vedremo cosa intendo con questo termine) incominciamo a parlarne di più di queste cose, perché così facendo il nostro cervello riceverà un’indicazione precisa: non quello, questo!

Non violenza, ma amore.

Non arroganza, ma gentilezza.

Non possesso, ma appartenenza.

Tutto ciò a cui maggiormente faremo pensare il nostro cervello sarà ciò che, con il tempo, esso imparerà a pensare più facilmente; e le cose che pensiamo più facilmente, con il tempo, saranno quelle che saremo più portati a praticare.


Dopo questa cornice introduttiva veniamo ora al tema dell’appartenenza a cui più volte ho accennato.

Da una parte - lo abbiamo detto - l’utilizzo degli aggettivi possessivi dischiude l’eventualità di vissuti e di comportamenti nefasti nei confronti di quanto viene associato ai suddetti aggettivi (specie quando si tratta di persone).

Questa però è solo una delle due possibilità.

L’altra è la seguente: quando diciamo mio marito, mia moglie, i miei genitori, i miei figli, i miei amici, non li stiamo intendendo come una proprietà sulla quale avanzare diritti, non li stiamo intendendo come cose sulle quali la nostra avidità si può avventare, non li stiamo intendendo come un’estensione della nostra mano.

Tutte queste espressioni non indicano cioè i nostri possessi, ma - all’opposto - rivelano lo sfondo dal quale emergiamo e al quale in qualche modo noi apparteniamo.


Per esempio: quando dico la mia terra (per me è la Sardegna) non intendo dire che la possiedo, cioè che è di mia proprietà; intendo dire invece che è da quello sfondo (fatto di suoni, accenti, profumi, colori, sapori, paesaggi, usanze, persone) che è emersa la mia identità e gran parte del mio modo di essere nel mondo.

Quando dico la mia terra parlo di amore (quello che ho ricevuto e quello che sento nei confronti di questo luogo e dei suoi abitanti).

Quando dico la mia terra sto dicendo che io in qualche modo le appartengo.

Similmente dicendo mia moglie non intendo dire che lei è una mia proprietà, o che la concepisco in funzione dei miei bisogni.

Quando dico mia moglie intendo dire che è lei che abita il mio cuore, e non un’altra donna.

Ed è così perché, sebbene venga da una terra lontana come la Nuova Zelanda, in qualche modo in lei ritrovo me stesso, ritrovo cioè qualcosa del mio sfondo esistenziale: in un certo senso posso dire che io le appartengo.

E lo stesso vale per lei.

Credo che tutte le relazioni significative siano nel profondo una forma di appartenenza reciproca (nel senso appena descritto).

Sulla base di tale reciprocità, che evidentemente non esaurisce le identità e le storie di ciascuno, viene poi costruita un’ulteriore co-appartenenza fatta di tutte le novità che derivano dal farsi quotidiano della relazione (ad esempio cura, gentilezza, amore).


Ciò che mi preme sottolineare è la vastità delle reti associative che sono sottese alle espressioni prese in esame.

Alcune di queste reti - lo abbiamo detto - hanno espansioni mortifere, altre   hanno espansioni vitali.

A seconda di quali reti alimentiamo con i nostri discorsi gli effetti possono essere molto differenti (come evidenziano gli studi di Lakoff e di Johnson).

Tutto ciò - fra le altre cose - ci conduce anche all’indissolubile rapporto fra testo e contesto.

Non possiamo comprendere nessun comportamento (compreso quello verbale) se non collegandolo al contesto nel quale esso si manifesta.

Si tratta in realtà di una relazione bidirezionale: attraverso il linguaggio conosciamo il contesto (l’ambiente) e attraverso il contesto conosciamo il linguaggio (e chi lo utilizza).

Ad un linguaggio generico (ad esempio: Nicola è un amico) possiamo dire che si accompagni una conoscenza generica, e potenzialmente tendente all’indifferenza.

Ad un linguaggio più specifico (ad esempio: Nicola è un mio amico) possiamo dire che si accompagni una conoscenza più specifica, e potenzialmente tendente alla specialità.

Il punto è che siamo esseri fatti per la specialità: abbiamo bisogno di qualcuno che sia speciale per noi, e allo stesso tempo abbiamo anche bisogno di sentici speciali per qualcuno.

La storia delle nostre specialità - vissute o mancate - riverbera nei nostri discorsi, nei nostri gesti, nelle nostre scelte.

Gli aggettivi possessivi (in quello che abbiamo chiamato il loro aspetto vitale) - e qui volevo arrivare - ci parlano proprio di queste specialità, ci parlano delle nostre specialità.

Essi non sono evidentemente l’unico modo per accedere a questa dimensione così preziosa della nostra esistenza, ma nondimeno rappresentano anch’essi una via che conduce (arricchendolo) ciascuno di noi al proprio sfondo personale, a quello sfondo dal quale emergono le figure che, insieme  a quest’ultimo (lo sfondo), rivelano i significati delle nostre vite.

Ecco perché dire, ad esempio, un amico o il mio amico è differente.

Quando dico il mio amico non penso ad un generico legame di amicizia; penso invece a tutta la specialità personale presente in quella relazione di cui io faccio parte; penso alla nostra reciproca appartenenza (così per come la abbiamo definita); e allora non posso che sentire un grande, grandissimo senso di gratitudine.


Che cosa succede invece quando lo sfondo, per vari motivi, s’impoverisce, si fa carico di sofferenza o si desensibilizza?

A questo proposito mi torna in mente un colloquio clinico condotto da una grande terapeuta della Gestalt a cui ho assistito qualche anno fa durante un seminario.

Ad un certo punto Carmen Vasquez Bandin (così si chiama la terapeuta) disse alla persona con cui stava lavorando: “Cara di chi sei tu? Chi è che ti vuole bene e si prende cura di te?”.

“Non sono di nessuno… Io mi prendo cura di me”, disse la persona commossa, dopo un lungo silenzio, guardando negli occhi la terapeuta.

Quanta intensità e quanta dolcezza c’era in quegli sguardi e in quel silenzio prima della risposta!

Mentre le guardavo mi sono ricordato di quando, tante volte, ho sentito dire ai bambini: “E tu l’amore di chi sei?”.

Ecco: io credo che le nostre appartenenze (così per come le abbiamo considerate) abbiano a che fare proprio con questa domanda; io credo che, in ultima analisi, abbiano a che fare con l’amore.


Alla riposta che possiamo dare a questa domanda (Tu l’amore di chi sei?) è connessa anche la speranza di cui siamo capaci nei confronti della vita.

E se quest’ultima (la speranza) è un’attesa fiduciosa dovuta al fatto che possiamo credere che qualcuno ci sarà per noi, perché lo abbiamo sperimentato tante volte, allora - a maggior ragione - questa fiducia, fatta di appartenenze reciproche, questa fiducia alla base della speranza - dicevo - dobbiamo alimentarla giorno per giorno (anche con le parole che scegliamo di usare).

Soprattutto in questi tempi sofferenti, auguro a tutti noi di poter gioire delle nostre appartenenze e di poterle affermare ampliandone sempre di più i relativi aspetti vitali.





164 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page