
Introduzione
Nell’occuparci dell’impiego dell’immagine mentale in psicoterapia, e segnatamente in Psicoterapia della Gestalt, riteniamo opportuno preliminarmente sottolineare, di quest’ultima, il suo carattere olistico.
A questo proposito, riportiamo quanto scritto in quello che è considerato il testo fondativo di tale modello terapeutico, vale a dire Teoria e pratica della terapia della Gestalt, di Frederick Perls, Ralph Hefferline e Paul Goodman.
Così scrivono gli Autori: “Il valore più grande dell’approccio gestaltico risiede forse nell’insight secondo cui la totalità determina le parti”(1); intendendo con ciò che essa (la totalità) è qualcosa di più della semplice somma delle parti.
Per essere ancora più precisi: in Psicoterapia della Gestalt (da qui in avanti Gestalt) l’accento viene posto sul modo in cui l’unità si realizza attraverso l’integrazione delle sue parti.
Tale principio unitario (organizzativo e integrativo), in virtù del quale le parti sono messe insieme, è presente in ogni momento esperienziale.
Questo vuol dire che ogni volta che facciamo esperienza di qualcosa (vale a dire ogni volta che incontriamo l’ambiente) lo facciamo sempre con tutto l’organismo, cioè con tutte le parti che ci costituiscono.
Questo è il motivo per il quale, quando si parla di esperienza umana, in Gestalt si sottolinea il fatto che essa si realizzi attraverso cinque livelli fra loro collegati, e precisamente: il cognitivo, l’immaginativo, l’emotivo, il sensorio e il corporeo.
Come avremo modo di argomentare, è proprio tale compenetrazione fra i livelli a rendere possibile, da una parte, il farsi dell’esperienza stessa, e, dall’altra, il poter utilizzare un elemento appartenente ad un livello (l’immagine mentale) per stimolare una riorganizzazione dell’intera unità psicofisica.
Per esplorare tali compenetrazioni e le loro implicazioni, faremo riferimento anche agli studi di autori provenienti da campi differenti da quello della Gestalt. Fra questi citiamo: Ernst Kretschmer, Luigi Peresson, George Lakoff e Mark Johnson.
Il contatto e la compenetrazione fra i livelli dell’esperienza
Il presente lavoro, come è stato già anticipato, ha per oggetto l’impiego dell’immagine mentale in psicoterapia.
Il suo scopo è dunque quello di occuparsi dell’esperienza umana nel suo livello immaginativo.
Da quanto fin qui esposto appare evidente, tuttavia, che (almeno in ottica gestaltica, ma non solo) tale livello non possa agire se non in collegamento con tutti gli altri.
Per tale ragione, prenderemo in considerazione anche aspetti esperienziali relativi a livelli differenti da quello immaginativo.
Per dar conto ulteriormente delle ragioni di questa scelta, riteniamo opportuno dedicare alcune parole ad uno dei concetti chiave della Gestalt.
Il contatto (questo è il concetto a cui ci stiamo riferendo) rappresenta il processo mediante il quale l’organismo realizza la propria esperienza all’interno di quella particolare forma di integrazione indissolubile che è chiamata campo organismo/ambiente.
Mediante tale processo - dicevamo - l’organismo si adatta all’ambiente, assicurando a se stesso il proprio accrescimento e la continuità della propria esistenza.
Senza approfondire la questione (il che richiederebbe una trattazione a parte), riteniamo comunque opportuno sottolineare che in ogni contatto lo scambio è bidirezionale: pertanto entrambi, sia l’organismo sia l’ambiente, ne risultano trasformati.
In linea con quanto fin qui esposto relativamente ai diversi livelli dell’esperienza, riportiamo una delle definizioni di contatto contenute nel già citato testo fondativo.
Contatto è - così si legge - “la consapevolezza della novità assimilabile e il comportamento assunto nei suoi confronti; nonché il respingimento della novità non assimilabile”(2).
Come si può notare già da queste poche parole (nel testo il concetto è espresso in maniera ampia e diffusa), il processo esperienziale richiede la compresenza e la compenetrazione di elementi sia fisici che psichici.
Ernst Kretschmer e il concetto di Tiefenperson
La compresenza e la compenetrazione dell’elemento fisico con quello psichico è stata evidenziata non solo in ambito gestaltico, ma anche in ambiti differenti.
A titolo di esempio, citiamo gli studi di Ernst Kretschmer e il suo concetto di Tiefenperson (Personalità Profonda)(3).
Con tale concetto lo psichiatra tedesco intende una dimensione psichica primitiva, il cui funzionamento è strettamente interconnesso con l’attività neurovegetativa e ormonale dell’organismo.
Gli elementi costitutivi della Tiefenperson sono due meccanismi psicofisiologici che egli definisce iponoici e ipobulici.
La particolarità di tali meccanismi - sottolinea Kretschmer - è quella di orientare il comportamento dell’individuo in maniera inconsapevole.
Nello specifico, i primi (quelli iponoici) sono relativi a tutte quelle forme di conoscenza che si realizzano al di sotto del livello della consapevolezza.
La loro caratteristica è quella di produrre la conoscenza in una maniera altra rispetto a quella propria del pensiero razionale e del linguaggio convenzionale (inteso nel suo rapporto strettamente definito fra significato e significante).
Le informazioni che raggiungono la Tiefenperson - precisa Kretschmer - sono quelle veicolate dalle immagini visive (o mentali in genere) e quelle proprie del linguaggio delle emozioni, della fantasia e dei sogni.
I meccanismi ipobulici - invece - sono meccanismi relativi a tutti quei comportamenti messi in atto dal soggetto non per decisione volontaria, ma come forma d’azione reattiva collegata alle conoscenze acquisite per via iponoioca.
Quando tali conoscenze subliminali non sono congrue con gli autentici bisogni biologici dell’organismo - precisa Kretschmer - possono originarsi delle tendenze comportamentali disadattive.
Queste ultime - continua lo psichiatra tedesco - possono apparire irrazionali ed estranee rispetto all’abituale comportamento del soggetto e possono essere, per quest’ultimo, fonte di grande sofferenza.
Essendo tendenze comportamentali di tipo ipobulico (cioè al di fuori del proprio controllo volontario) la persona ha difficoltà a porvi rimedio, soprattutto nella misura in cui cerca di affrontare la situazione facendo ricorso alle argomentazioni tipiche del pensiero razionale.
In riferimento agli obiettivi del presente lavoro, riteniamo opportuno, a proposito degli studi di Kretschmer appena citati, sottolineare quanto segue.
Primo: la Tiefenperson possiede un modello di attività psichica di tipo primordiale nel quale l’elemento psichico e quello fisiologico si compenetrano e si fondono. Le tendenze ipobuliche proprie di questi strati profondi della personalità originano, in parte, dalle influenze ormonali e dall’assetto del sistema neurovegetativo e, in parte, dalle conoscenze iponoiche precedentemente descritte.
Secondo: il modello psichico della Tiefenperson non può essere assimilato ad altre forme di psichismo arcaico, come ad esempio quello proprio dei riflessi condizionati. Il motivo è presto detto: mentre questi ultimi sono apprendimenti dovuti all’esposizione prolungata a stimoli esterni, le tendenze ipobuliche nascono invece da una condizione globale interna che risente sia delle conoscenze subliminali (iponoiche) sia degli aspetti organici sopra indicati.
Terzo: agire sulle tendenze comportamentali disadattive facendo ricorso esclusivamente ad una modalità comunicativa di tipo razionale è infruttuoso. Per poter incidere su tali dinamiche (raggiungendo in maniera diretta gli stati profondi della personalità) occorre far riferimento a linguaggi di tipo suggestivo o immaginifico.
Rispetto a quanto fin qui esposto, mette conto sottolineare ancora una volta due aspetti: da una parte, la compenetrazione fra il livello fisico e il livello psichico all’interno di ogni processo esperienziale; dall’altra, l’efficacia della comunicazione immaginifica nel raggiungere gli strati più profondi della personalità (strati nei quali tale compenetrazione è più marcata).
Ancora sul concetto di contatto
Le posizioni espresse da Kretschmer, sotto certi aspetti, ci paiono mostrare una qualche similitudine con quelle espresse dalla Gestalt relativamente ai cinque livelli dell’esperienza precedentemente elencati.
A questo proposito, riteniamo utile qualche approfondimento relativo al livello cognitivo (al cui interno rientra l’aspetto verbale della comunicazione).
Prima di procedere in tal senso, vogliamo però rimarcare alcuni concetti di base della Psicoterapia della Gestalt.
Il contatto - si è detto - è il processo mediante il quale l’organismo, nella sua integrazione indissolubile con l’ambiente, realizza la propria esperienza.
Perché quest’ultima possa aver luogo (e dunque possa esserci un contatto pieno) devono essere presenti tre elementi: “l’orientamento, la manipolazione e il sentimento”(4).
Questo vuol dire che l’organismo deve avere consapevolezza di quali siano i propri bisogni (orientandosi in tal senso) e deve essere capace di manipolare l’ambiente (cioè deve saper agire in maniera tale da poter soddisfare i bisogni individuati). Il sentimento (inteso come il “coinvolgimento organico”(5) nella situazione esperienziale) deve accompagnare l’intero processo.
Fatte queste necessarie premesse, torniamo di nuovo al livello cognitivo e agli approfondimenti che avevamo annunciato.
Perls, Hefferline e Goodman sottolineano che, dal punto di vista verbale, il sentimento è espresso soprattutto “dal ritmo, dal tono, dalla scelta e dalla deformazione delle parole e della sintassi”(6).
I nostri Autori precisano, inoltre, che il linguaggio verbale costituisce una differenziazione di un contatto già esistente.
Riguardo alla differenziazione in oggetto, sottolineiamo - per inciso - che essa si basa sulla capacità del nostro intelletto di astrarre forme universali a partire da elementi particolari.
Sebbene tale capacità cognitiva sia il segno del progresso evolutivo compiuto dall’essere umano, la differenziazione che essa produce - scrivono Perls, Hefferline e Goodman - può tuttavia rappresentare un pericolo.
Nello specifico - essi dicono - il pericolo in questione è il seguente: “se la sentita unità originaria si indebolisce”(7) le astrazioni di cui il linguaggio è costituito “cominceranno ad essere considerate come il terreno originario del contatto”(8).
Se questo accade - concludono - i rapporti interpersonali saranno vissuti principalmente come rapporti verbali.
La conseguenza (e al tempo stesso la causa) di tutto ciò è dunque l’indebolirsi del sentimento di quell’unità originaria a cui abbiamo accennato.
Tale unità, lo ricordiamo, è relativa sia al rapporto fra l’organismo e l’ambiente, sia al rapporto reciproco fra i differenti livelli dell’esperienza.
Quando tale indebolimento ha luogo - scrivono Perls, Hefferline e Goodman - si verifica un cambiamento nell’organizzazione dell’esperienza: da un’organizzazione di tipo insieme con si passa ad una di tipo al posto di.
Il risultato di un simile processo è un contatto impoverito.
L’esperienza che ne deriva è incompleta, in quanto viene a mancare quell’elemento di novità di cui l’organismo ha bisogno per sostenere la propria vitalità e il proprio accrescimento.
Quando il contatto è siffatto - continuano i nostri Autori - ci troviamo di fronte alla seguente situazione: da una parte, abbiamo un linguaggio privo di sentimento; dall’altra, abbiamo un comportamento sgraziato.
Tutto ciò, quando è perdurante e continuo, si traduce in una situazione di disadattamento e di sofferenza.
L’opposto del linguaggio nevrotico appena descritto - scrivono Perls, Hefferline e Goodman - non è né il silenzio, né, evidentemente, la semantica puramente razionale.
L’opposto del linguaggio nevrotico è - essi dicono - il linguaggio creativo della poesia (un linguaggio carico di emozioni, ricco di immagini e dotato di un alto valore simbolico).
Grazie a questo tipo di linguaggio - proseguono i tre studiosi - è possibile ridare vitalità alla parola, reintegrare i livelli dell’esperienza e rinnovare il sentimento dell’unità originaria di cui abbiamo parlato.
Torneremo ancora su questi aspetti, in particolare sulle caratteristiche del linguaggio e sulla sua compenetrazione con gli altri livelli dell’esperienza; prima, però, riteniamo opportuno evidenziare alcuni aspetti relativi alla natura dell’immagine e segnatamente a quella dell’immagine mentale.
L’immagine mentale
Nel trattare l’argomento faremo riferimento al testo L’immagine mentale in psicoterapia, di Luigi Peresson, al quale rimandiamo il lettore per ulteriori approfondimenti.
L’immaginazione - scrive Peresson citando Amedeo Dalla Volta - è una “attività di pensiero di tipo imitativo o costruttivo, che consiste nella composizione di immagini in una trama apparentemente molto libera, ma di fatto diretta a risolvere determinati problemi per il raggiungimento di una meta”(9).
Come si può notare, si tratta di un processo che si diversifica in due aspetti: esiste un’immaginazione riproduttrice (la cui funzione è la rievocazione mnemonica di dati già esperiti) ed esiste anche un’immaginazione creatrice (la cui funzione è la costruzione di immagini nuove a partire da esperienze pregresse).
A proposito di questo secondo aspetto, va rilevato che le esperienze pregresse a cui si fa riferimento non devono essere necessariamente intere organizzazioni esperienziali.
Il punto di partenza per il processo creativo può essere anche il singolo elemento di un intero esperienziale più complesso (per quanto, a ben vedere, neanche questo “singolo” di partenza sia un irrelato, almeno non in senso assoluto).
In termini generali - continua Peresson - ci si può riferire all’immagine (vale a dire al prodotto di questa attività del pensiero chiamata immaginazione) con il termine di rappresentazione mentale.
Il lettore tenga conto, inoltre, che in entrambe le forme di immaginazione (sia quella riproduttrice sia quella creatrice), le rappresentazioni mentali vengono prodotte in assenza di una concomitante stimolazione sensoriale.
Tali rappresentazioni mentali possono essere di tipo visivo, uditivo e cinestetico.
Un altro aspetto certamente da sottolineare è il seguente: “La formazione di immagini”(10) - sottolinea Peresson - “fa parte del processo del pensiero”(11), sebbene vada precisato - continua lo studioso - che quest’ultimo (il pensiero) possa originarsi anche in assenza di immagini.
Infine, riteniamo opportuno rimarcare quanto segue: ognuno dei cinque livelli dell’esperienza ha una sua specificità e, al tempo stesso, delle compenetrazioni con gli altri livelli.
Tali compenetrazioni, pur non essendo immediatamente e completamente evidenti alla consapevolezza propria di ogni livello, sono, nondimeno, l’elemento in virtù del quale è possibile, agendo su una parte (un livello), ottenere un effetto sull’intero.
Riteniamo che tali compenetrazioni siano maggiormente presenti nelle dimensioni più profonde di ogni livello (approfondiremo in seguito la questione facendo riferimento agli studi di George Lakoff e di Mark Johnson).
A qualcosa di simile, per certi versi, abbiamo già accennato presentando gli studi di Kretschmer.
Ad ogni modo - lo ribadiamo - è proprio grazie a tali compenetrazioni che è possibile, terapeuticamente, agire su una parte per ottenere un effetto sull’intero.
Quando questo accade possiamo dire, con un linguaggio gestaltico, che le persone realizzano nuovi contatti.
Tutto ciò avviene indipendentemente dalla piena consapevolezza che queste ultime possono avere rispetto al perché l’azione su un livello produca effetti sugli altri livelli e sull’intero.
Quello che fa la differenza, in ottica gestaltica, è la concentrazione sul come dell’esperienza, sul come, momento per momento, questi livelli interagiscono fra loro e su come, in qualche modo, si compenetrano.
In questo senso, seppure con intenti differenti, rifacendoci al titolo di un’opera di Giorgio Nardone, potremmo dire che, per mezzo delle immagini mentali (ma non solo), in terapia si possono aiutare le persone a realizzare nuovi contatti solcando il mare all’insaputa del cielo (12).
Tutto ciò, evidentemente, non esclude un lavoro di comprensione razionale delle esperienze portato avanti a livello cognitivo.
Le tre leggi fondamentali dell’attività immaginativa
Sempre tenendo presenti il concetto di contatto e l’integrazione fra i livelli dell’esperienza, riportiamo alcune precisazioni di Peresson riguardo alle caratteristiche dell’immagine creatrice.
Quest’ultima - egli dice - “è intimamente collegata al movimento e più precisamente ad un movimento allo stato iniziale”(13).
Nell’immagine riproduttrice, invece, siffatta caratteristica, sebbene presente, non la si ritrova in maniera così marcata.
Il motivo è il seguente: essendo questa seconda un’immagine di tipo passivo (è la semplice riproduzione di un dato già esperito) essa non implica alcun elemento di novità verso il quale orientarsi ed agire.
Nonostante questa importante distinzione - lo ribadiamo - si può comunque affermare che in tutte le rappresentazioni mentali sia possibile rinvenire (sebbene con intensità differenti) un elemento motore che muove all’azione fisica.
La ragione di ciò risiede nel fatto che in ogni rappresentazione mentale sono presenti residui di percezioni passate (e dunque di orientamenti e azioni che il soggetto autore della rappresentazione ha compiuto nell’ambiente).
Tralasciamo in questa sede la possibile esistenza di percezioni esperite non direttamente dal soggetto. Il riferimento, in questo caso, è al pensiero di Carl Jung e a quello di Roberto Assagioli.
Di quest’ultimo, però, riprendendola dal testo di Peresson, riportiamo la legge sull’attività immaginativa, la quale, insieme alle prime due (formulate da Théodule-Armand Ribot) va a costituire le tre leggi fondamentali dell’attività immaginativa.
Nel testo di Peresson le troviamo formulate come segue.
Prima legge: “Ogni immagine ha in sé un impulso motore”(14).
Seconda legge: “Le immagini mentali tendono a suscitare le emozioni e a produrre le condizioni fisiche e gli atti ad esse corrispondenti”(15).
Terza legge: “Ogni movimento richiede una sua immagine che lo preceda”(16).
Rispetto a quanto fin qui ripreso dal testo di Peresson, ci preme sottolineare, da una parte, ancora una volta, la compenetrazione fra i differenti livelli dell’esperienza (elemento portante del presente lavoro) e, dall’altra, il riferimento alla tensione nei confronti della novità (aspetto, quest’ultimo, evidenziato a proposito dell’immaginazione creatrice).
Entrambi questi aspetti ci sembrano mostrare dei significativi elementi di contatto con le posizioni della Gestalt fin qui esposte.
L’immaginazione creatrice e la Gestalt: ulteriori elementi di similitudine
Se prendiamo in considerazione i due fattori costitutivi dell’immaginazione creatrice, che Peresson ripropone nello schema presentato da Ribot, i possibili elementi di similitudine che emergono fra quest’ultima e la Gestalt ci paiono essere ancora maggiori.
Tale tipo di immaginazione è costituita - secondo Ribot - da due fattori, uno intellettuale e uno emozionale.
Il primo di essi presuppone, a sua volta, due attività fondamentali: la prima (preparatoria), può essere indicata come un’attività di dissociazione o di astrazione; la seconda (conclusiva), è rivolta, per così dire, a solidificare l’immagine che si sta producendo, e può essere indicata come un’attività di associazione.
Prima di procedere oltre, vogliamo segnalare un’ulteriore importante differenza che Assagioli evidenzia fra l’immaginazione riproduttrice e quella creatrice.
La prima - egli dice - è frutto di un’azione volontaria e cosciente; la seconda, al contrario, nasce spontaneamente, senza l’intervento della volontà.
Rispetto a quest’ultimo punto, viene però precisato che il processo creativo, sebbene sia spontaneo, può anche prendere il via da una iniziale volontaria e cosciente evocazione simbolica.
Quanto fin qui esposto - dicevamo - ci sembra mostrare significativi elementi di similitudine con alcuni concetti cardine della Psicoterapia della Gestalt.
Abbiamo già precedentemente accennato al concetto di contatto, aggiungiamo adesso che quest’ultimo si realizza in virtù di una intenzionalità spontanea, la consapevolezza della quale emerge al confine di contatto fra l’organismo e il suo ambiente.
Perls, Hefferline e Goodman sottolineano che il “contatto in quanto tale è possibile anche senza la consapevolezza”(17), ma - precisano - “per la consapevolezza il contatto è indispensabile”(18).
Si tenga presente che per consapevolezza essi intendono l’accorgersi fisico ed emozionale di quanto sta accadendo durante il processo esperienziale.
L’insorgere della coscienza (intesa come la riflessione razionale sul processo in corso) è invece da essi considerata come il segno di una qualche difficoltà a realizzare pienamente l’esperienza.
A questo proposito, evidenziamo che, nel testo originale in lingua inglese, Perls, Hefferline e Goodman distinguono fra awareness (consapevolezza) e consciousness (coscienza): la prima è spontanea e si accompagna al contatto; la seconda è volontaria (almeno nel suo perpetuarsi) e - essi dicono - “sembra essere, un particolare tipo di consapevolezza […] in cui vi sono difficoltà e ritardi di adattamento”(19).
Un altro concetto gestaltico sul quale invitiamo il lettore a soffermarsi è quello di aggressività dentale.
Con tale espressione viene indicata la capacità dell’organismo di destrutturare gli stimoli provenienti dall’ambiente, così da poter far proprio quanto ritenuto assimilabile e rifiutare quanto non ritenuto tale.
Quest’ultimo aspetto si collega ad una delle differenti definizioni di contatto che troviamo nel testo fondativo e che riportiamo di seguito: il contatto - vi si legge “è la consapevolezza della novità assimilabile e il comportamento assunto nei suoi confronti; nonché il respingimento della novità non assimilabile”(20).
Alla luce di quanto fin qui esposto, ci pare che, fra l’immagine creatrice e i concetti gestaltici presentati, si possano individuare ulteriori similitudini rispetto a quelle già evidenziate riguardo alla compenetrazione dei differenti livelli dell’esperienza.
Dell’immagine creatrice sono stati sottolineati il carattere spontaneo, i sottostanti processi di dissociazione e di associazione e, per concludere, la sua intima tensione nei confronti della novità.
Tali aspetti ci sembrano mostrare una qualche similitudine con il concetto gestaltico di contatto.
Anche quest’ultimo infatti, come l’immagine creatrice, è essenzialmente collegato all’elemento della novità (e lo è a tal punto che, senza di essa, non esiste contatto).
Così come l’immagine creatrice ha alla sua base sottostanti processi di dissociazione e di associazione, così il contatto, per potersi realizzare, prevede la destrutturazione degli elementi componenti l’esperienza e la loro riconfigurazione in una nuova struttura.
Per quanto riguarda la consapevolezza che si accompagna al contatto, abbiamo sottolineato come essa sia altra rispetto a quella di tipo puramente razionale (che è stata indicata come coscienza).
Anche su questo punto le similitudini con l’immaginazione creatrice ci sembrano evidenti. Così come evidenti, sotto il medesimo aspetto, ci sembrano le similitudini con gli studi di Kretschmer relativamente all’utilizzo di linguaggi suggestivi e immaginifici in rapporto alla Tiefenperson (anche in questo caso si tratta li linguaggi altri rispetto a quello puramente razionale).
La possibilità di utilizzare questo tipo di linguaggi altri si basa sul fatto che, come è già stato sottolineato, il pensiero si realizza attraverso differenti forme di rappresentazioni intrapsichiche, alcune delle quali, per l’appunto, sono “codificate in modo tale da non essere completamente comprensibili all’individuo nei termini della sua struttura cognitiva linguistica conscia”(21).
La forma più nota di questo tipo di rappresentazioni altre è il notturno.
Ad esso Sigmund Freud e Carl Jung hanno dedicato nei loro studi particolare attenzione, rilevando, tra l’altro, che tale tipo di rappresentazione, tipica del sogno, si verifica anche durante lo stato di veglia.
Altri Autori - da parte loro - hanno rilevato che le immagini spontanee (quali sono quelle prodotte dall’immaginazione creatrice) possiedono, come quelle oniriche, un’organizzazione di tipo simbolico e metaforico.
George Lakoff e Mark Johnson: la struttura metaforica del sistema concettuale
A proposito di organizzazioni simboliche e metaforiche, rifacendoci agli studi di George Lakoff e Mark Johnson (che presentiamo di seguito) sottolineiamo che, sebbene non tutte le rappresentazioni mentali abbiano valore simbolico o metaforico, gran parte del nostro sistema concettuale ha proprio questa natura.
Nella loro celebre opera Metafora e vita quotidiana (testo al quale facciamo riferimento) Lakoff e Johnson presentano l’ipotesi secondo la quale la metafora non sia da intendere semplicemente come un particolare artificio retorico, cioè come qualcosa legato esclusivamente all’espressione linguistica di un concetto già dato.
La loro idea (ampiamente argomentata) è che metaforica sia non solo l’espressione linguistica, ma che lo sia anche, per la gran parte, la struttura stessa del sistema concettuale per mezzo del quale pensiamo.
In sostanza - essi dicono - la ragione per la quale possiamo esprimerci metaforicamente è perché i nostri stessi processi di pensiero hanno loro per primi una struttura metaforica.
Vediamo meglio in che senso.
Cominciamo con il dire - sempre citando Lakoff e Johnson - che “l’essenza della metafora è credere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro”(22), proseguiamo, poi, con il sottolineare che la sua funzione primaria è quella di favorire la comprensione dell’esperienza.
Va precisato che i concetti metaforici (questo è ciò che Lakoff e Johnson intendono quando parlano di metafore) si organizzano fra loro in sistemi coerenti.
Tale caratteristica è fondamentale, poiché è proprio la sistematicità dei concetti metaforici a permetterci di comprendere un particolare aspetto di un concetto nei termini di un altro (e dunque, in ultima analisi, a permetterci la comprensione dell’esperienza).
Il fatto che tale comprensione orienti il nostro comportamento in una maniera coerente con il concetto compreso è dovuto anch’esso alla sistematicità dei concetti.
Consideriamo, ad esempio, la metafora la discussione è guerra (proposta dagli stessi Autori).
Poiché le nostre discussioni sono concettualizzate, almeno in parte, in termini di combattimenti (si pensi ad espressioni quali: difendere le proprie posizioni, demolire le argomentazioni dell’avversario, attaccare il punto debole di un ragionamento, e così via) tendiamo a porci nei confronti del nostro interlocutore come se ci trovassimo di fronte ad un avversario da sconfiggere. Tutto ciò può avvenire anche a livello inconsapevole.
Se dovessimo esprimerci nei termini della Teoria dei giochi di John Von Neumann potremmo dire che una simile metafora sottende un gioco a somma zero: c’è qualcuno che vince e c’è qualcuno che perde.
La discussione, pertanto, così concettualizzata, non è occasione di arricchimento reciproco per entrambi i partecipanti (o almeno non in maniera diretta), ma lo è solo per uno dei due (quello che vince).
Una volta posta e utilizzata una metafora - sottolineano Lakoff e Johnson - essa orienta il nostro modo di pensare e di comportarci, indipendentemente dalla consapevolezza che ne possiamo avere.
A questo proposito, per ulteriori approfondimenti, rimandiamo il lettore ad un altro testo dello stesso Lakoff: Non pensare all’elefante!
Nell’opera appena citata viene analizzato il modo in cui le cornici semantiche, all’interno delle quali collochiamo i contenuti dei nostri discorsi, orientano le nostre comprensioni, le nostre emozioni e i nostri comportamenti.
Fatta questa breve digressione, ritorniamo alle analisi relative alla metafora.
Per dimostrare quanto il nostro sistema concettuale sia per gran parte metaforico vengono analizzati nel dettaglio alcuni differenti tipi di metafore.
Ne citiamo alcune. Lakoff e Johnson le chiamano, rispettivamente: strutturali, di orientamento, ontologiche e di personificazione.
Le prime, quelle strutturali, sono quelle nelle quali un singolo concetto è strutturato - per l’appunto - in termini di un altro (il tempo è denaro, ad esempio).
Le seconde, invece, sono quelle metafore nelle quali ad essere strutturato in termini di un altro elemento non è un singolo concetto, ma un intero sistema di concetti.
Questo secondo tipo di metafore sono chiamate di orientamento, poiché la maggior parte di esse ha a che fare con l’orientamento spaziale (su/giù, davanti/dietro, dentro/fuori, ecc.).
L’aspetto più importante riguardo a tali orientamenti metaforici è che essi non sono arbitrari: derivano, infatti, dalla costituzione fisica del nostro corpo e dall’azione di quest’ultimo in un ambiente soggetto alla forza di gravità.
La non arbitrarietà di tali orientamenti - precisano gli Autori - è dovuta anche agli influssi derivanti dalle specifiche appartenenze culturali.
Le metafore di orientamento - dicevamo - conferiscono una direzione spaziale ai concetti ai quali esse sono riferite.
Ad esempio: “contento è su”(23) - scrivono Lakoff e Johnson - precisando che tale orientamento è alla base di espressioni quali: “Oggi mi sento su di morale”(24).
Le caratterizzazioni spaziali sono fondamentali nella nostra vita.
Vediamo meglio in che senso.
Il funzionamento del nostro corpo è intimamente connesso all’orientamento spaziale; quest’ultimo, infatti, è essenziale per l’organizzazione dei nostri movimenti, qualunque sia l’attività che decidiamo di fare, compreso il dormire.
La formazione di questo tipo di concetti - lo abbiamo detto - è radicata nella nostra esperienza corporea.
Su, ad esempio - per usare le parole di Lakoff e di Johnson - “non è compreso puramente in termini autonomi ma emerge […] dall’insieme delle funzioni motorie costantemente praticate e che si riferiscono alla nostra posizione eretta relativamente al campo gravitazionale in cui viviamo”(25).
In termini generali, da ciò consegue che, a esperienze fisiche differenti, corrispondono metafore (e comprensioni) differenti.
Passiamo ora a descrivere gli ultimi due tipi di metafore a cui abbiamo accennato: quelle ontologiche e quelle di personificazione.
Per riflettere sulle nostre esperienze - affermano Lakoff e Johnson - abbiamo bisogno di categorizzarle e di raggrupparle, come se fossero entità o sostanze.
Riusciamo a comprendere emozioni, attività, idee, ecc. - essi dicono - proprio considerandole in tal modo (come cose), cioè ricorrendo a metafore di tipo ontologico.
A titolo di esempio si consideri la frase seguente: “lavar via la macchia del peccato”.
Le metafore di personificazione, invece, sono quelle a cui facciamo riferimento quando, per comprenderle, attribuiamo caratteristiche umane a cose che umane non sono (ad esempio alle malattie, alle teorie, all’inflazione, ecc.).
Fin qui abbiamo preso in considerazione la nostra esperienza spaziale e percettiva, sottolineando quanto essa sia intimamente connessa con il nostro sistema concettuale.
Altrettanto importante è la nostra esperienza emotiva; tuttavia - precisano Lakoff e Johnson - diversamente da quella spaziale e percettiva, essa è meno precisamente delineata.
Mentre per quanto riguarda lo spazio - evidenziano i nostri Autori - una struttura concettuale coerente e definita emerge dallo stesso funzionamento del nostro corpo, altrettanto non accade per quanto riguarda le emozioni.
È per questo motivo che - essi dicono - per concettualizzare le emozioni ricorriamo alle metafore.
Tutto ciò è possibile perché - affermano Lakoff e Johnson - esistono delle sistematiche correlazioni fra il modo in cui sperimentiamo le emozioni (“contento è su”, ad esempio) e le nostre esperienze senso-motorie (il fatto che possediamo la posizione eretta, ad esempio).
In ragione di quanto fin qui esposto, “possiamo parlare di metafore emergenti e di concetti emergenti”(26).
Esempi delle prime sono: felice è su e la discussione è guerra.
Esempi dei secondi sono: su-giù e oggetto.
Sia le metafore emergenti, sia i concetti emergenti - lo ribadiamo - si formano sulla base della nostra costante interazione con l’ambiente (fisico e culturale).
Come si può notare, l’idea secondo cui il pensiero umano sia qualcosa di puramente astratto o simbolico viene decisamente rifiutata.
Per comprendere il funzionamento delle metafore - precisano ancora i nostri Autori - occorre tenere presente che esiste una distinzione ineliminabile fra l’esperienza e il modo in cui la concettualizziamo.
Essi non sostengono in alcun modo (e lo sottolineano) che l’esperienza corporea abbia un valore maggiore rispetto ad altri tipi di esperienza, quali ad esempio quella mentale, culturale o emotiva.
Quello che essi intendono affermare, invece, è che tendiamo a concettualizzare il non fisico in termini del fisico; vale a dire che tendiamo a concettualizzare ciò che è meno delineato attraverso ciò che è più chiaramente delineato.
Questo non significa che fra i concetti emergenti e le metafore emergenti esista una distinzione netta, o che ogni concetto che formuliamo debba appartenere, per forza, ad una o all’altra delle due tipologie indicate.
I concetti, in sostanza, non sono né puramente emergenti, né puramente metaforici; sembra piuttosto - affermano Lakoff e Johnson - che siano costituiti da un nucleo emergente successivamente elaborato in modo metaforico.
Per queste ragioni - sostengono i nostri Autori - il nostro sistema concettuale può essere meglio compreso considerandolo come una Gestalt i cui elementi si basano su una esperienza multiforme (fisica, mentale, culturale, emotiva ecc.).
A tal proposito, in linea con il tema oggetto del presente lavoro, intendiamo richiamare, ancora una volta, la già menzionata compenetrazione fra livelli dell’esperienza.
Tale compenetrazione, abbiamo detto, risulta maggiore nelle profondità di ciascun livello. La cosa ci pare si possa affermare anche in riferimento agli studi di Lakoff e Johnson, relativamente al livello cognitivo.
Precisiamo che né la natura metaforica del sistema cognitivo, né la compenetrazione fra i livelli dell’esperienza sono immediatamente evidenti al pensiero (sebbene entrambe siano implicate nel suo realizzarsi).
Per cogliere tali implicazioni è necessaria una riflessione specifica (come, ad esempio, quella portata avanti da Lakoff e da Johnson).
In particolare, sottolineiamo quanto segue: se pure, a livello di processo, attraverso una simile riflessione è possibile cogliere le implicazioni e le connessioni profonde di cui abbiamo parlato, a livello di contenuto, alcune comprensioni rimangono comunque precluse (o almeno non sono completamente possibili nella forma logico-razionale propria del linguaggio comune).
Anche in questo caso, occorrono linguaggi altri, nello specifico quelli metaforici.
La metafora, infatti - scrivono Lakoff e Johnson - “è uno dei nostri strumenti più importanti per cercare di comprendere parzialmente quello che non può venire compreso totalmente: i nostri sentimenti, le esperienze estetiche, le pratiche morali, e la coscienza spirituale”(27).
Sebbene si tratti di un’alterità rispetto alla forma logico-razionale propria del linguaggio comune, ci preme sottolineare che tale alterità non è di tipo assoluto, poiché - precisano Lakoff e Johnson - il tipo di immaginazione che utilizza la metafora possiede anch’esso una razionalità.
Non a caso, in riferimento a questo tipo di immaginazione, proprio in virtù dell’impiego della metafora, gli Autori utilizzano il nome di “razionalità immaginativa”.
Metafore immaginative e creative
Quanto fin qui esposto a proposito degli studi di Lakoff e Johnson ha importanti implicazioni pratiche nella costruzione delle immagini mentali che intendiamo creare e proporre ai nostri pazienti nella forma, ad esempio, di visualizzazioni guidate.
Poiché il parlare ha un ordine lineare (nelle frasi alcune parole vengono prima di altre) risulta evidente il collegamento fra il tempo (nel suo aspetto di successione cronologica) e la parola.
Il tempo, a sua volta - sottolineano Lakoff e Johnson - “è concettualizzato metaforicamente in termini di spazio”(28).
Questo significa che esistono delle connessioni precise e automatiche (nel senso che non le scegliamo) tra la forma e il contenuto delle nostre frasi.
Ciò che è vicino, ad esempio, sia nel suo aspetto fisico che cronologico, è inteso e vissuto come qualcosa dotato di maggior potenza rispetto a ciò che è lontano.
Vicinanza e lontananza qui vanno intese non solo spazialmente e cronologicamente, ma anche rispetto al modo di parlare e pensare del parlante prototipico (le cui caratteristiche sono state descritte analizzando la natura metaforica del sistemata concettuale).
In sostanza: dobbiamo scegliere accuratamente quali parole utilizzare e in quale ordine presentarle, così da creare delle visualizzazioni dotate di quella che in Gestalt viene chiamata una buona forma.
Questo vale sia per le metafore convenzionali (vale a dire quel tipo di metafore sulla base delle quali è strutturato il sistema concettuale delle differenti culture), sia per quelle che Lakoff e Johnson chiamano metafore immaginative e creative.
Queste ultime (sono quelle che vengono utilizzate in terapia nella forma, ad esempio, delle visualizzazioni guidate) presentano molti punti di contatto con quanto esposto da Peresson a proposito dell’immaginazione creatrice e con quanto contenuto nel testo fondativo della Gestalt a proposito del linguaggio poetico.
Tali metafore - scrivono Lakoff e Johnson - sono in grado di donarci una nuova comprensione delle esperienze che stiamo vivendo. Attraverso di esse possiamo dare un nuovo significato al passato, al presente e al futuro.
In termini gestaltici potremmo dire che facciamo tutto questo donando nuova vitalità al processo di formazione di una figura su uno sfondo, vale a dire a quel processo per mezzo del quale, nelle nostre esperienze, illuminiamo determinanti aspetti e ne lasciamo in ombra degli altri.
Le metafore creative (ossia le nuove metafore che creiamo con il linguaggio) hanno il potere - dicono i due Autori - di creare nuove realtà.
E aggiungono: “È piuttosto ragionevole assumere che le parole, da sole, non cambiano la realtà. Ma i cambiamenti nel nostro sistema concettuale cambiano ciò che è reale per noi e influiscono sul modo in cui percepiamo il mondo e agiamo in base a queste percezioni”(29).
Conclusione
La comprensione del mondo e l’autocomprensione sono due processi che si richiamano e si completano a vicenda.
Sulla base degli elementi presentati (in particolare la compenetrazione dei livelli dell’esperienza, la natura metaforica del sistema concettuale e gli accadimenti nelle profondità della Tiefenperson), risulta evidente quanto possa essere utile in terapia l’utilizzo dell’immagine mentale per favorire questi due tipi di comprensione.
Attraverso l’impiego di una visualizzazione guidata, ad esempio, il paziente può essere accompagnato verso il “riconoscimento conscio di metafore precedentemente inconsce”(30) (metafore sulla base delle quali, pur senza averne consapevolezza, egli viveva la propria vita).
Tutto ciò implica la costruzione di nuove coerenze e di nuovi significati.
Come già si è detto, per ogni paziente occorre molta cura nello scegliere sia le immagini più adatte alla situazione clinica, sia le parole attraverso le quali queste immagini sono veicolate.
Per inciso, riguardo agli straordinari effetti che le parole sono in grado di produrre, si rimanda il lettore agli importanti studi sul placebo condotti da Fabrizio Benedetti.
In questa sede sottolineiamo semplicemente che le ricerche in questione hanno evidenziato che le parole sono in grado di attivare le stesse vie biochimiche sulle quali agiscono i farmaci come la morfina.
Le parole, dunque, insieme alle immagini che esse veicolano, hanno un grande potere.
Addirittura - come precisa lo stesso Benedetti - poiché nel corso dell’evoluzione esse sono nate prima dei farmaci, sarebbe più corretto dire che sono questi ultimi ad attivare le stesse vie biochimiche sulle quali agiscono le parole.
Ancora una volta, la compenetrazione fra i livelli dell’esperienza appare evidente.
Concludendo, sottolineiamo che le parole di cui ci siamo occupati in questa sede sono quelle proprie del linguaggio poetico (il riferimento qui è al già citato testo fondativo).
Questo linguaggio altro rispetto a quello puramente razionale, tipico del linguaggio comune, è un linguaggio simbolico, metaforico, immaginifico.
Attraverso questo tipo di comunicazione, di cui l’immagine è l’espressione più pregnante, in qualche modo ci è concesso (almeno parzialmente) ciò che sarebbe impossibile in sua assenza: possiamo vedere ciò che non ci è dato vedere, possiamo sentire ciò che non ci è dato sentire, e, infine, possiamo toccare ciò che non ci è dato toccare.
Tutto ciò ci mette nelle condizioni di ricreare la nostra esperienza, trovando in essa nuove organizzazioni, nuove strutture e nuovi significati.
Note
(1) Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella persona umana, Astrolabio, Roma, 1997, p. 32
(2) Op. cit. p. 40
(3) Nel trattare l’argomento abbiamo fatto riferimento al testo di Luciano Masi indicato in bibliografia
(4) Op. cit. p. 141
(5) Op. cit. p. 44
(6) Op. cit. p. 141
(7) Op. cit. p. 122
(8) Ibidem
(9) Cit. in Peresson L., L’immagine mentale in psicoterapia, Città Nuova, Roma, 1982, p.15
(10) Op. cit. p. 16
(11) Ibidem
(12) Il titolo originale e l’opera sono riportati in bibliografia
(13) Op. cit. p. 36
(14) Op. cit. p. 36
(15) Op. cit. p. 37
(16) Op. cit. p. 38
(17) Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella persona umana, p. 29
(18) Ibidem
(19) Op. cit. p. 40
(20) Ibidem
(21) Peresson L., L’immagine mentale in psicoterapia, p. 28
(22) Lakoff G., Johnson M., Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 1998, p. 21
(23) Op. cit. p. 31
(24) Ibidem
(25) Op. cit. p. 76
(26) Op. cit. p. 77
(27) Op. cit. p. 215
(28) Op. cit. p. 149
(29) Op. cit. p. 167
(30) Op. cit. p. 257
Bibliografia
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Kepner J. J., Body process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia, Franco Angeli, Milano, 2015
Lakoff G., Johnson M., Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 1998
Lakoff G., Non pensare all’elefante!, Chiarelettere, Milano, 2020
Masi L., Le tecniche autogene superiori. Verso la sintesi mente-corpo, C.I.S.S.P.A.T., Padova, 2003
Nardone G., Solcare il mare all’insaputa del cielo, Ponte alle Grazie, Milano, 2008
Peresson L., L’immagine mentale in psicoterapia, Città Nuova, Roma, 1982
Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella persona umana, Astrolabio, Roma, 1997
Perls F., L’Io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano, 1995
Reale G., Corpo, anima e salute, Raffaello Cortina, Milano, 1999
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