Carl Gustav Jung individua quattro funzioni proprie della coscienza umana, tre delle quali sono relativamente differenziate e a disposizione di ogni coscienza individuale e una, la quarta, che è invece indifferenziata. Rispetto alle tre (la principale più le due ausiliarie) quest'ultima rappresenta l'ombra senza la quale non può darsi piena coscienza.
Secondo il grande psicoanalista svizzero la quaternità è un archetipo e, come tale, è un universale. Il concetto va precisato: la coscienza umana ha per certo una struttura quaternaria (e in questo senso il quaternio è un universale), quello che non ci è dato sapere è se altre possibili forme di coscienza siano anch'esse da ricondurre al quaternio. Ignoriamo se esistano altre forme di vita intelligente rispetto alla nostra, con altri tipi di pensiero e di logica (non possiamo tuttavia escluderlo a priori); sappiamo però per certo che la nostra coscienza possiede una struttura quaternaria, poiché per orientarci nel mondo ci occorre una funzione che attesti che qualcosa esiste (la sensazione), una che ci dica di che si tratta (il pensiero), un'altra che ci informi se questo qualcosa sia piacevole o meno (il sentimento) e, per concludere, una che ci informi sulla provenienza e il fine di questo qualcosa (l'intuizione). Al di là di questo, altro non possiamo sapere - sostiene Jung - sottolineando al tempo stesso che “l'aspetto quadruplice rappresenta il minimum della completezza di un giudizio. La completezza ideale è il rotondo, il cerchio, ma la sua minima divisione naturale è la quaternità” (Jung, 2004 b, p. 165).
Gli archetipi - afferma Jung - sono fattori o motivi organizzatori della psiche: realizzano la propria funzione ordinando gli elementi psichici in immagini (dette archetipiche) che sono “preconsce e formano presumibilmente le dominanti strutturali della psiche in genere” (Jung, 2004 b, p. 149). Gli archetipi - aggiunge - rappresentano un a priori irrappresentabile la cui origine è coeva alla vita stessa.
La coscienza ha dunque a che fare con un quaternio e questo quaternio ha una forma particolare che il grande psicoanalista descrive come un “3+1”. Tale espressione manifesta la scissione fra le tre funzioni differenziate e quella indifferenziata (cui si è fatto cenno precedentemente) ed esprime il percorso evolutivo compiuto dalla coscienza umana, la quale, attraverso la civilizzazione, ha tentato di liberare se stessa dalle sue radici più profonde che la congiungono con il regno animale. Questo tentativo di liberazione è, per l'appunto, solo un tentativo, poiché - sostiene Jung - “La cosiddetta coscienza civilizzata si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza, però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra coscienza e perciò sono costretti ad affermarsi in maniera indiretta” (Jung, 2004 a, p. 83). Tale manifestazione può avvenire o attraverso dei sintomi fisici, come nel caso delle nevrosi, o attraverso dei fatti apparentemente inspiegabili, come nel caso delle improvvise dimenticanze o dei lapsus nel linguaggio. Tutte queste manifestazioni devono la loro origine all'azione autonoma degli archetipi. Quella che noi conosciamo come coscienza è pertanto qualcosa che ha avuto origine differenziandosi progressivamente da una mente originaria, che in tempi antichissimi “costituiva l'intera personalità dell'uomo” (Jung, 2004 a, p. 98).
Tutte le manifestazione indirette di cui si è parlato, così come i simboli che compaiono nei sogni, rappresentano il tentativo da parte dell'inconscio di portare l'antica mente originaria ad un livello di coscienza, livello al quale detta mente non è mai stata. Ciò significa che la mente originaria non è mai stata oggetto di riflessione critica da parte della coscienza; quest’ultima, infatti, proprio nel suo progressivo formarsi, è andata perdendo via via il contatto “con parte di quella primitiva energia psichica. La mente conscia [...] non ha perciò mai conosciuto la mente originaria: essa è stata a poco a poco lasciata nell'ombra durante il processo di evoluzione della coscienza” (Jung, 2004 a, p. 98).
L’inconscio tuttavia sembra conservare quei tratti primitivi che erano propri della mente originaria. Tali tratti si possono osservare in tutte quelle manifestazioni indirette a cui abbiamo fatto riferimento e che, nel loro insieme, sembrano manifestare l'intenzione dell'inconscio di voler recuperare “tutte quelle cose vetuste di cui la mente si è venuta progressivamente liberando” (Jung, 2004 a, p. 98); esse costituiscono l'ombra della coscienza.
Jung è ben consapevole del fatto che il riferimento a fenomeni come quelli appena descritti sia per la scienza fonte di serio imbarazzo, dal momento che detti fenomeni non possono venir formulati nelle modalità che la scienza richiede; tuttavia - sottolinea - la psicologia si trova in una simile situazione di imbarazzo anche in altre occasioni, come quando - egli dice - tenta ad esempio (senza riuscirci) di definire in maniera esaustiva fenomeni quali l'affetto o l'emozione.
Il motivo di tale difficoltà - sostiene Jung - è il medesimo: anche in questi casi si tratta di fenomeni in cui interviene l'inconscio. L'imbarazzo di cui egli parla gli deriva, in quanto scienziato, dalla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un oggetto di studio che per sua natura non può essere compreso in maniera completa o adeguata.
Ciò nonostante, per quanto questi fatti non possano essere formulati nel linguaggio logico-razionale del sapere scientifico - egli dice - essi sono comunque dei fatti reali: nessuno può negarne l'esistenza, e pertanto non possono essere ignorati. Occorrerebbe - precisa ancora Jung - “essere in grado di comprendere la vita in se stessa, poiché è la vita che produce emozioni e idee simboliche” (Jung, 2004 a, p. 91).
Alla luce di quanto detto, risulta ora più chiaro il motivo per cui la struttura quaternaria della coscienza umana sia espressa da Jung nella formula del “3+1”. Nel suo progressivo differenziarsi dalla mente originaria la mente cosciente ha mantenuto qualcosa dell'orientamento primitivo e, infatti, una parte della personalità è rimasta nella precedente condizione, vale a dire inconscia. A questa parte, corrispondente alla quarta funzione mancante, al “+1” che deve essere aggiunto per ricostituire la totalità originaria, Jung dà il nome di ombra. Per ricomporre l'intero, che (come già sosteneva il pensiero greco antico) è il solo che abbia potere esplicativo nei confronti del frammento, occorre dunque aggiungere un’unità.
Come si può notare, compare un'unità ad entrambi gli estremi del processo: le due unità in questione non sono però la stessa cosa; eppure al tempo stesso, in qualche maniera, lo sono.
Come si giunge dunque dall'uno all'uno passando per il quattro? Jung spiega tale passaggio elaborando una dettagliata analisi psicologica del Timeo platonico e del dogma trinitario, ribadendo peraltro che di analisi psicologica si tratta e come tale va considerata. Lamentando il fatto di essersi scontrato più volte nel malinteso che una simile analisi psicologica volesse ridurre Dio ad un semplice fatto psicologico, Jung sottolinea che la sua analisi non ha per oggetto Dio in senso metafisico o teologico; egli si sta occupando esclusivamente dell'idea che l'uomo ha di Dio e pertanto - lo ribadisce - trattandosi di concezioni ed immagini elaborate dagli uomini, l'analisi in questione è un'analisi prettamente psicologica. Il quattro - lo abbiamo detto - è un archetipo. Questi ultimi sono dei nuclei dinamici della psiche e hanno una fortissima influenza sulla vita di ciascuno di noi, poiché, essendo alla base della formazione delle nostre emozioni e delle nostre idee, influenzano il rapporto che abbiamo con gli altri e il nostro stesso essere nel mondo. All'interno della nostra mente essi possono agire sia come forze creatrici (quando la loro azione ci ispira idee nuove) sia come forze distruttive (quando queste stesse idee atrofizzandosi e chiudendosi in se stesse ci precludono ulteriori avanzamenti di pensiero). L'idea trinitaria presente sia all'interno del Timeo sia nel dogma cristiano è per l’appunto una manifestazione archetipica e - afferma Jung - rappresenta il processo di progressiva differenziazione della coscienza dalla mente originaria.
In entrambi i casi, tuttavia, manca il quarto elemento, l'ombra, il “+1”, il solo che aggiungendosi ai tre precedenti può ricostituire l'unità della totalità originaria.
Il Timeo platonico, influenzato dal pensiero pitagorico, ha a sua volta influenzato profondamente le successive speculazioni filosofiche, pertanto - sottolinea Jung - è opportuno esplorare (almeno in parte) alcuni aspetti psicologici connessi alla speculazione numerica.
L'uno, ad esempio (come la filosofia medioevale ha messo in evidenza), per quanto a prima vista possa risultare strano, non è un numero. Il primo numero è il due: è quest'ultimo infatti che, introducendo una separazione e un accrescimento rispetto all'uno, rende possibile la numerazione.
L'aspetto fondamentale è che la comparsa del due introduce una differenziazione rispetto all'elemento precedente: abbiamo così l'uno e l'altro. Tutto ciò è talmente significativo che - sottolinea Jung - in molte lingue la parola usata per indicare il secondo è la stessa usata per indicare l'altro.
E aggiunge: “Con ciò si collega volentieri l’idea di destra e sinistra e, ciò che è più notevole, di fausto e infausto, e perfino di bene e male. “L’altro” può avere significato “sinistro”, о almeno si sente l’“altro” come l’opposto e l’estraneo” (Jung, 2004 b, p. 124).
A questo proposito, riprendendo le argomentazioni di un alchimista medioevale, viene fatto notare che nella Genesi l’unico giorno nel quale Dio non loda quanto aveva appena creato è proprio il secondo giorno, poiché in quel giorno era nato “il binarius , il diavolo (come numero due, “dubbio”)” (Ibidem).
Nonostante gli aspetti sinistri (per usare l’espressione riportata da Jung) che l’introduzione della polarità reca con sé, quest’ultima rappresenta un aspetto fondamentale per lo sviluppo del pensiero: senza opposti complementari non potremmo neanche pensare; e infatti, come potremmo formulare un qualsiasi tipo di giudizio senza l'opposizione rappresentata da polarità quali bene/male, bello/brutto, alto/basso e così via?
Alcune precisazioni sono necessarie. Il due fa riferimento all'uno non in quanto uno innumerabile, l'elemento originario dal quale siamo partiti (a questo, infatti, si riferisce l'altro), ma a quell'“uno diminuito dalla scissione e diventato numero” (Jung, 2004 b, p. 125). Gli elementi antitetici sono pertanto solo l'uno e l'altro, mentre l'uno e il due sono semplici differenze rappresentanti un differente valore aritmetico.
Accade però qualcosa - sottolinea Jung riferendosi alla prima coppia (l’uno e l’altro) - infatti “l'“uno” tenta di mantenere il suo essere uno e solo, mentre l'“altro” si sforza di essere appunto un altro di fronte all'uno. L'uno non vuol sciogliere l'altro perché altrimenti perderebbe il suo carattere, e l'altro si stacca dall'uno per esistere” (Ibidem).
La tensione antitetica che si genera in tutto ciò reclama una risoluzione, ed è per questo che si genera il terzo, nel quale (sciolta l'antitesi) ricompare l'uno originario, ora conoscibile grazie all'opposizione esercitata dall'altro. “La triade è dunque uno sviluppo dell'uno nella conoscibilità” (Ibidem).
Queste riflessioni pitagoriche, come si è detto, riverberano anche all'interno del Timeo. In questo famoso dialogo il grande filosofo ateniese, parlando a proposito della creazione dell'universo afferma che Dio, componendolo, lo fece con il fuoco e la terra, ma poiché non si poteva avere una buona composizione utilizzando solo due cose Dio ne aggiunse una terza, e cioè un legame che congiungesse le prime due.
Di tutti i legami - afferma Platone - il più bello è quello che, unendo due elementi, fa in modo che ciò che viene “legato” sia, per quanto è possibile, una cosa sola.
La proporzione - dice Platone - riesce a fare tutto ciò in maniera bellissima, poiché “quando di tre numeri, o masse o potenze quali si vogliano, il medio sta all'ultimo come il primo al medio, e d'altra parte ancora il medio sta al primo, come l'ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l'ultimo e il primo divenendo a loro volta medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola” (Platone, citato in Jung, 2004 b, p. 126).
A queste argomentazioni il filosofo ateniese fa seguire delle riflessioni che - sottolinea Jung - hanno delle implicazioni di tipo psicologico molto profondo.
Vediamo quali sono.
Se il legame che unisce i primi due elementi (fuoco e terra) è una proporzione geometrica - afferma Platone - allora questo medio (in quanto proporzione geometrica) può unire soltanto forme bidimensionali; ma il mondo, come possiamo vedere, è fatto di corpi tridimensionali, pertanto la creazione dell'universo esige la presenza di due medi.
Si ottengono in questo modo altri due elementi (acqua e aria) che sommati ai precedenti - dice Platone - costituiscono i quattro elementi fondamentali costituenti l'universo. Dal punto di vista psicologico, l'aspetto fondamentale di tutta questa argomentazione è il fatto che “l'unione bidimensionale non è quindi ancora una realtà corporea, ma soltanto qualcosa di pensato, in quanto superficie inestesa nella terza dimensione” (Jung, 2004 b, p. 126).
Pertanto, poiché dall'unione di due elementi in antitesi l'uno con l'altro si ricava una triade bidimensionale e quest'ultima corrisponde a qualcosa di solo pensato ma non reale, la rappresentazione (e dunque la coscienza) di una realtà corporea esige un quaternio, vale a dire l'unione di due coppie antitetiche.
Questo rapporto fra il tre e il quattro, a cui abbiamo fatto riferimento parlando delle quattro funzioni della coscienza (tre delle quali sono differenziate e in opposizione ad una che è invece indifferenziata), è stato oggetto di una riflessione millenaria anche da parte dell'alchimia.
Quest'ultima, nel cosiddetto Assioma di Maria profetessa, così si esprime al riguardo: “L'Uno diventa Due, e i Due Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l'unità” (citato in Jung, 2003, p. 160).
Alla luce di quanto fin qui esposto appaiono fortemente significative - come lo stesso Jung sottolinea - le parole che Platone utilizza all'inizio del dialogo in questione: “Uno, due, tre: e dov'è caro Timeo, il quarto?” (Jung, 2004 b, p. 127).
Se prendiamo queste parole non come una semplice casualità letteraria, ma come qualcosa di profondamente significativo, come una vera e propria espressione archetipica, allora è ragionevole pensare che anche per Platone (sebbene forse non ne avesse piena consapevolezza) la coscienza rimandasse ad una quaterna che non è ancora compiuta ma che ha da compiersi.
Analoghe riflessioni, come già anticipato, vengono fatte da Jung a proposito del dogma trinitario. Per quanto la triade in questo caso non presenti l'iniziale tensione dialettica che caratterizza quella platonica e in questo, pertanto, i due oggetti di analisi si differenziano, tuttavia anche in questo caso - sottolinea Jung - siamo di fronte ad una triade che necessita dell'aggiunta di un quarto elemento. Similmente alla prima triade, anche questa rappresenta il processo di sviluppo della coscienza, sviluppo a cui, per ricostituire la totalità originaria, manca l'ultimo elemento (l'ombra), in questo caso rappresentata dal diavolo.
Così come nel Timeo platonico si rileva la necessità di due triadi (condizione necessaria per poter rappresentare qualcosa di reale), allo stesso modo un’analoga necessità - scrive Jung - si può rilevare nel dogma trinitario.
A tal proposito, così scrive il padre della psicologia complessa: “Alla rappresentazione del dio trino con tre teste corrispose un Satana tricefalo, come appare, per esempio, in Dante. Con ciò, analogamente all'Anticristo, si allude a un'antitrinità infernale, a una vera umbra trinitatis” (Jung, 2004 b, p. 169).
E aggiunge: “L'uomo è proprio il ponte teso sull'abisso tra “questo mondo”, regno del tricefalo tenebroso, e la Trinità celeste. Perciò anche nel tempo dell'assoluta fede nella Trinità ci fu sempre una ricerca del quarto perduto, dai neopitagorici greci fino al Faust di Goethe” (Jung, 2004, b, p. 174).
E' convinzione di Jung che simili manifestazioni culturali (siano esse religiose, artistiche o di altro genere) che riguardano il problema del rapporto fra una terna ed una quaterna (e precisamente un rapporto nel quale il tre in qualche modo si risolve in un quattro) siano da intendere come un fenomeno collettivo che rappresenta la differenziazione della coscienza.
In questa analisi psicologica del dogma trinitario, ad esempio, ad un livello individuale, la figura del Padre corrisponde (nel processo di differenziazione) ad uno stato irriflesso caratterizzato dalla pura percezione sensibile. La successiva figura del Figlio, invece, corrisponde ad un differente stato, caratterizzato dalla intervenuta riflessione razionale e cosciente su ciò che prima veniva semplicemente sentito.
La capacità di discriminare, che caratterizza questo secondo stato, è fonte di possibili scissioni e opposizioni all'interno dello stesso individuo. E' bene precisare che tali scissioni erano presenti anche nel primo stato, semplicemente il soggetto non ne aveva consapevolezza.
Il passaggio alla figura del Figlio, dunque, non cancella lo stato precedente, che infatti continua ad agire mantenendo intatta la tensione dialettica fra i due. Il permanere di tale tensione richiede il superamento della negazione del Padre rappresentata dal Figlio: tale negazione della negazione corrisponde alla figura dello Spirito Santo.
Questo terzo stato rappresenta “una inserzione della coscienza dell'Io in una totalità sovraordinata, della quale non si può dire “Io”, che può quindi venire meglio rappresentata da un essere relativamente più vasto, onde si dovrebbe essere sempre coscienti dell'insufficiente antropomorfismo di una simile rappresentazione” (Jung, 2004 b, p. 180).
Coerentemente con quanto detto, questo terzo passaggio nel processo è raffigurato simbolicamente dallo Spirito Santo, vale a dire da qualcosa che decisamente va ben al di là del puro dato antropomorfico. Questa terza fase corrisponde ad un riconoscimento dell'inconscio, poiché in essa il soggetto riconosce che non è la coscienza a fornire i materiali su cui essa stessa discrimina e per i quali essa giunge alle sue conclusioni, ma è invece inconsciamente ispirata.
I passaggi da uno stato all'altro nel processo di differenziazione sono tutti qualificati da un carattere che Jung definisce numinoso. Con questo termine vengono qualificate quelle esperienze (siano esse religiose, mistiche o di qualunque altro tipo) nelle quali il soggetto che le vive ha la sensazione di sentirsi sopraffatto di fronte a qualcosa di meraviglioso e terribile insieme.
Ciò accade quando l'inconscio manifesta la sua estrema opposizione nei confronti della coscienza che discrimina. Tale opposizione - afferma Jung - è inesauribile e necessaria, e proprio in virtù di questo la terna deve sempre risolversi in un quaternio, poiché quest’ultimo è il solo in grado di offrire la completezza dell'esperienza (che è fatta non solo di razionalità e astrazioni intellettuali, ma anche di materialità e di irrazionalità, di aspetti paradossali, di qualcosa per cui (potremmo dire) la coscienza non dispone di categorie logiche adatte alla comprensione).
L’irrazionalità e il paradosso, dunque, abitano entrambi la vita, e l'uomo nel suo divenire cosciente non può eludere il confronto con questi intimi componenti dell’esistenza; e d’altra parte - come lo stesso Jung sottolinea - soltanto il paradosso è in grado di abbracciare la pienezza della vita (seppure soltanto approssimativamente).
Bibliografia
Jung, C. G. (2004). L'uomo e i suoi simboli. Milano: Raffaello Cortina.
Jung, C. G. (2004). Opere, Psicologia e religione (Vol. 11). Torino: Bollati Boringhieri.
Jung, C. G. (2003). Opere: Psicologia e alchimia (Vol. 12). Torino: Bollati Boringhieri.
Von Franz, M. L. (1974). Number and time. Evanston: Northwestern University Press.
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