
"Non sono le cose che non sai a metterti nei guai ma quelle che dai per certo”, afferma Mark Twain.
Qualcuno, leggendo questa frase, a sostegno di quanto sostenuto dallo scrittore statunitense, potrebbe elencare con facilità molti esempi di certezze malevole, e potrebbe mostrare altrettanto facilmente come queste ultime siano un’evidente fonte di sofferenza per chi le possiede.
Certezze di questo genere sono rintracciabili, ad esempio, in quei fenomeni di sopravvalutazione del pensiero così fortemente presenti nelle dinamiche di natura ossessiva (del tipo: se penso di poter avere una grave malattia, per il solo fatto di averlo pensato, sono portato a ritenere il contenuto del mio pensiero come qualcosa di reale e da prendere molto sul serio, con tutto ciò che ne consegue).
D’altra parte - potrebbe sottolineare qualcun altro - vi sono anche delle certezze che non solo non causano sofferenza, ma anzi sono balsamo contro i dolori che si possono sperimentare nella vita.
La certezza degli affetti (per chi la possiede) è un esempio di questo secondo tipo di certezze.
Eppure, anche queste ultime (in certi casi) se non proprio causa di guai, possono comunque essere alla base di alcune forme di autolimitazione non prive di sofferenza.
Si consideri il caso di chi, avendo avuto la fortuna di conoscere la bellezza e la solidità di certi affetti, proprio per questo stesso motivo, arrivi a disperare nella possibilità di poterne conoscere di nuovi altrettanto solidi e altrettanto belli, e a ragione di ciò finisca per evitare le situazioni che gli permetterebbero di fare queste nuove conoscenze.
A questo proposito mi è tornato alla mente il seguente dialogo avuto con un paziente.
Pz.: “Nessuno mi potrà mai capire così bene come mi capiva mia madre”.
T.: “Non dubito che le cose stiano come dice, allo stesso tempo, le chiedo: ritiene possibile che qualcun altro, magari non oggi, magari un giorno, possa comprenderla? Non come sua madre, ma comunque in qualche modo comprenderla. Lo ritiene possibile?”.
Dopo averci pensato un po’.
Pz.: “Sì, credo di sì”.
T.: “Come farà a rendersene conto? Di essere compreso intendo?”.
Pz.: “Mah, credo dando la possibilità a qualcuno di poterlo fare. Fidandomi un po’ di più”.
Dopo qualche secondo di silenzio.
T.: “Sì, immagino sia così”.
"Non sono le cose che non sai a metterti nei guai ma quelle che dai per certo”, afferma Mark Twain.
Forse il nostro scrittore, con questa frase un po’ paradossale, voleva metterci in guardia contro il pericolo insito nei pensieri di tipo assoluto.
Forse quello che opportunamente Mark Twain voleva fare era incoraggiarci a superare i confini delle nostre zone di sicurezza.
Forse il suo era un invito a riconoscere e ad accettare il rischio del dubbio come un elemento ineliminabile dell’esistenza (nel bene e nel male).
E d’altra parte la nostra stessa conoscenza non si è forse sviluppata avventurandosi per le zone incerte del non conosciuto?
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