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muoniguido

Le parola come i farmaci possono essere una "cura" o un "veleno"



Pensando alla natura delle parole, molti ritengono che esse siano qualcosa di molto etereo, tanto etereo da giudicare trascurabili i loro effetti, proprio a ragione di tale inconsistenza materiale.


Le ricerche in ambito psicologico e neuroscientifico hanno invece dimostrato il contrario.

Le parole, pur possedendo una natura simbolica e astratta, sono in grado di incidere materialmente nelle nostre vite, e lo fanno con una modalità simile al farmaco (parola che etimologicamente significa sia “cura” che “veleno”).

In sostanza, le parole che usi e che senti hanno il potere sia di far bene, sia di far male (e non solo psicologicamente).

A questo proposito voglio parlarti degli studi condotti da Fabrizio Benedetti, segnalandoti questo bellissimo testo: La speranza è un farmaco.


In questo libro Benedetti espone i risultati delle sue ricerche sul placebo e sugli effetti che, a livello fisiologico, le parole hanno in chi le riceve.

Dalle sue ricerche è emerso che esse attivano le stesse vie biochimiche sulle quali agiscono i farmaci come la morfina; anzi, come sottolinea Benedetti, poiché nel corso dell’evoluzione le parole sono nate prima dei farmaci, sarebbe più corretto dire che sono i farmaci ad attivare le stesse vie biochimiche sulle quali agiscono le parole.


Nei suoi lavori di ricerca Benedetti ha dimostrato che la speranza (alimentata da parole, gesti e in genere da simboli codificati di un certo tipo) è in grado di agire materialmente sul cervello, inducendolo a produrre antidolorifici naturali in grado di intervenire sulla percezione del dolore.


Nello specifico, presentando i risultati di uno di questi lavori, il testo riporta quanto segue: i soggetti sperimentali, monitorati attraverso un apparecchio di risonanza magnetica nucleare e sofferenti per forti dolori, erano stati semplicemente informati che sarebbe stata loro somministrata o della morfina o della semplice acqua distillata (placebo).

Al momento della somministrazione essi non sapevano quale delle due sostanze stessero realmente ricevendo.

Il protocollo di ricerca prevedeva inoltre che la somministrazione fosse accompagnata da un comportamento empatico da parte dello sperimentatore, e che questo utilizzasse delle parole volte a generare nel paziente delle aspettative positive.

La risonanza magnetica rilevò che anche nei casi in cui veniva somministrato il placebo si attivavano le stesse aree cerebrali attivate dalla morfina e il paziente ne traeva giovamento.

Per verificare l’ipotesi che parole e morfina utilizzassero gli stessi meccanismi di azione, Benedetti pensò di bloccare i recettori della morfina somministrando ai pazienti del Naloxone.

Il protocollo sperimentale venne ripetuto, ma questa volta (con i recettori bloccati) non si ottenne nessun effetto antidolorifico: le parole avevano perso il loro potere.

Sebbene si sia registrata una variabilità individuale nell’entità della risposta antidolorifica prodotta dalle parole (diversamente da quanto accade con la morfina) l’ipotesi era stata verificata: parole e morfina utilizzano gli stessi meccanismi di azione.

Così come i farmaci possono essere “cura” o “veleno”, allo stesso modo possono esserlo le parole; e anche questo è stato dimostrato sperimentalmente.

Questa volta la sperimentazione si è svolta in alta montagna.

L’alta quota e la conseguente rarefazione dell’ossigeno determina nell’organismo l’attivazione dell’enzima COX (responsabile del mal di testa e bersaglio dell’aspirina).

La ricerca condotta da Benedetti ha dimostrato che alimentando delle aspettative negative nei soggetti sperimentali attraverso la semplice comunicazione (uso di parole), si registrava un aumento dell’attività della COX. Questo aumento, rilevato attraverso l’analisi della saliva dei soggetti sperimentali, si accompagnava all’insorgere della cefalea.

L’aspetto fondamentale è che il numero di persone che affermavano di soffrire di mal di testa era maggiore fra coloro che avevano ricevuto una comunicazione negativa rispetto a coloro che invece non erano stati raggiunti da questo tipo di comunicazione.

Come puoi renderti conto, le parole possono essere "tossiche", e possono far male: ecco perché devi sceglierle con cura.

Scegliere le parole che usi significa scegliere cosa dire e come dirlo, significa decidere cosa dire e cosa non dire in un determinato momento.

Questo secondo aspetto (spesso trascurato) è fondamentale, perché il “non dire” è altrettanto importante e significativo quanto “il dire”.

Il valore comunicativo di “A” (il suo significato) è dato dal fatto che “A” sia “A” e al contempo non sia “B”, non sia “C”, non sia “D” ( e così via fino a “Z”).

Quando dici “A”, nello stesso momento non stai dicendo tante altre lettere, e proprio questo sfondo, questo “non detto”, contribuisce a dare significato al suono che hai pronunciato.

Il significato è dato dal rapporto fra figura e sfondo: abbiamo bisogno di entrambi.

In questo tempo (e non da poco), sembra che molti, oltre a non curarsi del “come” della figura, non si curino più neanche dello sfondo (quasi non servisse).

Questo fa sì che sempre più persone si ritrovino impegnate letteralmente a rovesciarsi addosso, le une con le altre, qualsiasi cosa passi loro per la testa, in nome di un non ben precisato valore di schiettezza, spontaneità e verità.

Sicuramente avrai sentito un’espressione ricorrente accompagnare gli scambi comunicativi di questo tipo, mi riferisco all’ormai tristemente famoso “Io sono vero”.

Ebbene, temo che, contrariamente al valore dichiarato, nella realtà si tratti, purtroppo, di una molto meno nobile e poco poetica forma di “incontinenza verbale”.

Come ora sai, le parole che usiamo possono fare grandi cose (nel bene e nel male): dunque, giova ribadirlo, è nostra responsabilità sceglierle con cura.


Ti saluto con una frase di Buddha, perché mi pare racchiuda il senso di quanto fin qui detto: “Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire”.


Pubblicato il 23/10/2019 - Photo by Siavash Ghanbari on Unsplash


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