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Il silenzio delle sirene - Un viaggio fra le pieghe dell’anima in compagnia di Jung e Kafka



Leggendo Sul buon uso del silenzio, un breve ma assai denso saggio di Gian Piero Quaglino, mi è tornato alla mente Il silenzio delle sirene, il racconto di Franz Kafka, che lo stesso Quaglino cita in un’altra sua opera dal titolo A colazione con Jung, scritta insieme ad Augusto Romano.


Prima di presentare alcune riflessioni inerenti al racconto di Kafka, è necessario esplicitare lo sfondo concettuale sul quale esse si costituiscono.


Nel primo testo citato - proprio a proposito di silenzio - Quaglino riporta le parole tratte da una lettera che Jung aveva scritto a Karl Oftinger, professore di diritto all’Università di Zurigo.

Rispetto al tema in questione (il silenzio) così si esprimeva il grande analista svizzero: “Chi ha paura di se stesso cerca una compagnia rumorosa e il chiasso fragoroso, in grado di scacciare i demoni […]. Il rumore dà un senso di sicurezza, così come la folla; perciò lo si ama e si evita di fare qualcosa per eliminarlo, dal momento che istintivamente se ne avverte il potere magico e apotropaico. […] Nel silenzio, infatti, l’ansia spingerebbe la gente a riflettere, e non si può prevedere che cosa arriverebbe alla coscienza. La maggior parte delle persone ha paura del silenzio, per cui quando viene meno il rumore continuo, per esempio di una conversazione, bisogna sempre fare, dire, fischiare, cantare, tossire, o mormorare qualcosa. Il bisogno di rumore è quasi insaziabile, anche se a tratti il chiasso ci sembra intollerabile”.


Rifacendomi a quanto appena esposto, l’aspetto che qui vorrei mettere in evidenza è proprio il timore dell’uomo nei confronti della propria interiorità, timore che è rivelato dal silenzio nella sua manifestazione oscura; già perché - come ben evidenzia Quaglino - esistono silenzi di luce e silenzi d’ombra.

I primi - egli dice - sono capaci di riscatto, di riabilitazione e di redenzione; sono i silenzi veri, sono quelli che disvelano, che danno corpo alle parole e le riparano. Potremmo dire che (in un certo senso) questi siano i silenzi che possediamo e da cui al tempo stesso siamo posseduti nei momenti in cui la novità dell’esperienza ci si rivela nel suo costituirsi fra l’eccesso e il nulla.

I secondi - prosegue ancora Quaglino - sono invece quei silenzi ostili, ricettacolo delle mistificazioni, delle contraffazioni e delle manipolazioni con le quali cerchiamo di negare la natura delle cose.

In essi non c’è novità, non c’è incontro, non c’è verità: vi è all’opposto quello che possiamo definire un congelamento dell’esperienza.


Abbiamo dunque silenzi che parlano (dando voce a se stessi e al mondo) e abbiamo silenzi muti (il cui tacere requisisce la parola dentro e fuori di noi).

In questi ultimi - dicevamo - si annida il male, il cui intento, strisciando non visto, è quello di giungere alla capitolazione di ogni autentica narrazione.

Anche il silenzio dunque - scrive Quaglino - “ha la sua ombra tenebrosa e la sua anima nera”, anch’esso, “al di là delle sue luci, ha un suo lato oscuro”.

Tutto ciò ci riporta al punto dal quale siamo partiti: il timore di noi stessi, il tema dell’Ombra racchiusa nella nostra interiorità e il silenzio come farmaco (con la sua doppia natura).

Sembrerebbe dunque che il silenzio, in qualche modo, sia sempre legato alla dimensione dell’incontro, ora come elemento facilitante, ora come forza ostacolante.


Dei tanti possibili incontri che possiamo fare nella vita uno fra i più difficili è forse quello con noi stessi.

La sua grande difficoltà risiede soprattutto nel fatto che - come sottolinea Jung - incontrare noi stessi significa incontrare anche la nostra Ombra.

Quest’ultima rappresenta il nostro lato oscuro: al suo interno dimorano gli elementi della psiche che sono rimasti primitivi e indifferenziati, i quali si contrappongono al nostro Io cosciente e alla tradizione sociale che quest’ultimo ha fatto propria.

D’altra parte - precisa ancora Jung - l’Ombra non rappresenta il male in senso assoluto: al suo interno, infatti, risiedono anche elementi vitali e infantili i quali, integrati nel processo di individuazione, contribuiscono positivamente al nostro sviluppo e al nostro cammino verso la completezza.

Ciononostante - dicevamo - incontrare la propria Ombra è duro, sgradevole, difficile, tanto difficile che spesso le persone questo incontro finiscono per rifiutarlo.

Quando questo accade, l’Ombra viene relegata nelle profondità dell'inconscio. Ciò non equivale, tuttavia, alla sua scomparsa.

E infatti - scrive ancora Jung nei passi riportati da Quaglino - l'Ombra se ne “sta annidata nel silenzio della sua oscurità e attende solo il momento propizio per manifestarsi senza che si sospetti neppure lontanamente quanto ciò sia pericoloso. La politica dello struzzo, con l’Ombra, è un’illusione fatale. Non si può alla lunga rinunciare alla propria Ombra a meno che non si voglia vivere eternamente al buio”.


Da quanto fin qui esposto sembra emergere un intreccio quadruplice fra i seguenti elementi: il silenzio, la parola (il suono), la luce e il buio,

A tale intreccio mi pare se ne accompagni un’altro ancora, espresso questa volta nelle tre polarità indicate di seguito: l’io e il mondo, l’interno e l’esterno, la stasi e il movimento.

Tutto ciò ritengo si possa osservare in maniera emblematica e potente (con una consistenza quasi materiale, direi) nel già citato racconto di Kafka Il silenzio delle sirene.


In questo breve e penetrante racconto il grande scrittore boemo rielabora in maniera personale il celebre passaggio di Odisseo accanto alle sirene.

Nessun uomo era mai riuscito a resistere al canto di questi esseri - scrive Kafka - nessuno era mai stato capace di resistere al suo fascino, nessuno aveva mai saputo opporre una qualche valida resistenza al suo potere.

E se pure mai ci fosse stato qualcuno capace di resistere al canto delle sirene - precisa ancora Kafka - di certo nessuno avrebbe mai potuto salvarsi dinanzi al loro ammutolire.

Ebbene quando Odisseo passò dinanzi a loro - si legge nel racconto - esse lo incrociarono con il loro silenzio.


C’era una sola cosa che quegli esseri bramavano in quel momento, ed era la “il riflesso lucente degli occhi immensi di Odisseo”.

E poiché sempre si cerca ciò che non si possiede, quel silenzio oscuro (in quanto privo di luce), quel tipo di silenzio - dicevamo - rappresentato dalle sirene nel loro ammutolire, potremmo forse dire che bramasse sopra ogni cosa la luce della coscienza, la luce della coscienza di chi, impavido (o incauto), si era spinto ai margini dell’abisso, nudo di fronte alla propria interiorità.

Qui è dove ogni uomo conosce i limiti cangianti della propria capacità di sostenere il rivelarsi della totalità del proprio essere.


Ma Odisseo non udì il loro silenzio, scrive Kafka.

Protetto dalla cera che aveva posto nelle orecchie e legato all’albero maestro, il re di Itaca credette che le sirene cantassero e che lui fosse salvo, ancora una volta, grazie al proprio ingegno.

Dal canto loro, le sirene proseguirono nel loro intento, in una maniera via via sempre più spasmodica.

Ormai - dice Kafka - esse non volevano più sedurre, volevano solo afferrare quel riflesso lucente che stava passando accanto a loro.


Da come è descritta la scena nel racconto possiamo immaginare che tanto più fosse intenso, stridente e acuto il silenzio delle sirene, tanto più fosse grande il loro desiderio di luce, un desiderio che ben presto sarebbe diventato bramosia fuori da ogni controllo e si sarebbe rivelato in un movimento scomposto di artigli e capelli al vento.


Leggendo questo racconto mi è tornato alla mente L’Urlo, il celebre dipinto di Edvard Munch.

Abbiamo iniziato queste riflessioni sottolineando il timore dell’uomo nei confronti della propria interiorità; ebbene, sia il silenzio delle sirene narrato nel racconto di Kafka, sia l’urlo silenzioso rappresentato nel dipinto di Munch, mi pare possano essere accostati insieme quali differenti espressioni del medesimo silenzio nel suo lato oscuro, quel silenzio la cui presenza rivela il congelarsi dell’esperienza ai bordi dell’abisso.


Al di là della modalità con la quale è esso espresso - dicevo - mi pare si possa affermare, in entrambi i casi, che si tratti del medesimo tipo di silenzio, quel tipo di silenzio che così facilmente sperimentiamo quando veniamo a contatto con gli aspetti maggiormente inquietanti e tenebrosi della nostra psiche più profonda.

L’incontro con la propria Ombra - lo abbiamo detto - è un’esperienza universale, così come universale (in qualche maniera) è la prova del silenzio che siamo chiamati a supere per poter procedere nel cammino dell’individuazione.

Ora, proprio perché si tratta di un’esperienza universale, tutti noi siamo in grado di avvertire in qualche modo la tensione esistenziale contenuta nei due esempi riportati.

Più che un pensiero preciso è forse un sentire confuso quello di cui siamo coscienti di fronte a queste due opere, ciò nondimeno si tratta di un sentire potente, profondo, inquietante, un sentire che ci mette in contatto con l’identico dramma che ciascuno di noi ha forse più volte sfiorato nella propria interiorità.


A questo proposito mi ritornano in mente le parole che mio padre Leandro Muoni scrisse nella sua Compieta dell’uomo tecnologico.

La reazione di chi osserva “un'opera d'arte quale il citato Urlo di Munch o i Corvi di Van Gogh” - scrive mio padre - “è in ultima analisi il silenzio, lo sbigottimento: il silenzio dello sbigottimento”.

Questo silenzio - io credo - è legato in qualche modo al timore dell’interiorità e alla percezione di intollerabilità di cui abbiamo parlato fin qui.

“Ecco perché” - scrive ancora mio padre - quell’urlo disperato […] appare “muto”, come muto è il contorcimento delle fauci dell'anguilla sventrata ancora viva, che urlano a vuoto, e noi ne udiamo il lacerante silenzio, che non può esprimere alcun suono perché è l'assoluto schianto, tanto che il fragore diventa troppo acuto e intenso, insopportabile per l'udito umano: l'ultrasuono dell'angoscia e del terrore”.


Potremmo forse dire, allora, che il silenzio nel suo lato oscuro più che un nulla è quel non-udibile che, sebbene non possa essere udito, spinge l’uomo a cercare di coprirlo.

Il contenuto angoscioso di questo silenzio, pur agendo oltre i limiti percepibili dell’esperienza, rimane attivo: se vi si viene a contatto, esso ha il potere di congelare l’esperienza, di mutarla in un qualcosa di sospeso e di irrisolto, in qualcosa che, quando meno la si aspetta, torna a riproporsi a colui che di questo silenzio non ha superato la prova.


Questo ultrasuono dell’angoscia e del terrore, questo silenzio nel suo lato oscuro, sembrerebbe che Odisseo non lo abbia avvertito, infatti - scrive Kafka - il re di Itaca non udì il silenzio delle sirene: pensava che esse cantassero.

Tutto “scivolò via lungo il suo sguardo volto in lontananza, le sirene letteralmente scomparvero alla sua vista, e proprio quando fu loro più vicino, non sapeva più nulla di loro”.


“Se le sirene avessero avuto coscienza” - scrive ancora Kafka - “quella volta sarebbero state annientate”, ma così non fu.

Il riflesso della luce non le raggiunse, il loro silenzio non fu attraversato e perciò, rimanendo nell’ombra, semplicemente scomparvero alla vista.


E così Odisseo si allontanò convinto di aver beffato ancora una volta la sorte.

Ma ecco che, sul finire del racconto, Kafka scrive qualcosa di sorprendente, qualcosa che, potenzialmente, è in grado di stravolgere l’esito dell’intera vicenda.


Odisseo - scrive il nostro Autore - mostrando una scaltrezza senza uguali, nel tentativo di proteggere se stesso da quell’incontro così soverchiante, ha semplicemente fatto finta di non sentire il silenzio oscuro delle sirene.

Forse però questa volta il grande ingannatore è caduto vittima della sua stessa arte: illudendosi di essere scampato alla prova del silenzio, ritenendo di aver evitato una volta per tutte l’incontro con la propria Ombra, il grande Odisseo ha invece - come dice Jung - semplicemente condannato se stesso a vivere eternamente al buio.


Stanno dunque così le cose?

Le sirene con il canto ti prendono dall’esterno e con il silenzio ti fanno loro dall’interno?

Questo epilogo tenebroso è davvero ciò che attende il re di Itaca?

Proprio lui, lui che viene descritto come Odisseo dagli immensi occhi, proprio lui ha davvero condannato se stesso ad una vita di oscurità?


Il racconto di Kafka si conclude così, lasciando il lettore in uno stato di sospensione e di incertezza, quasi con la sensazione di essere precipitato in qualcosa di irrisolto che reclama drammaticamente la sua pacificazione.


Cosa decideremo come lettori?

Cosa deciderà ciascuno di noi?

Odisseo continuerà a far finta di non sentire quel silenzio nella sua manifestazione oscura o deciderà infine di attraversarlo?

E ciascuno di noi cosa farà rispetto alla propria Ombra e ai propri silenzi?

Saremo in grado di attraversarli?

Dopo aver purificato i nostri silenzi dall’angoscia in essi contenuta sapremo contemplarli nella loro manifestazione luminosa?


Se riusciremo a fare tutto ciò, così come avviene per la parola poetica, che ha la capacità di ricomporre l’intero dell’esperienza, allora anche noi sapremo portare a compimento quella promessa di completezza che prima avevamo avvertita solo confusamente nella forma di schegge di luce perse in un oceano di silenzio oscuro.

Se riusciremo a fare tutto ciò avremo fatto un passo in più verso la completezza e verso la nostra individuazione, e saremo pronti per nuovi silenzi e per nuove prove.


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