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Il silenzio e la parola

Aggiornamento: 31 ott 2022



Parliamo … tutti, continuamente. Parliamo, parliamo, parliamo, e, per la gran parte, non lo facciamo gli uni con gli altri, ma gli uni sugli altri.

Ad osservare queste dinamiche, sembrerebbe che si stia smarrendo la capacità di cogliere nel silenzio la capacità di essere “vuoto fertile” (per usare un’espressione della Psicoterapia della Gestalt), intendendo con ciò il suo essere una condizione nella quale e dalla quale, in virtù di una imparzialità creativa, possono scaturire vitalità e accrescimento.

La parola, senza il silenzio che l’accompagna, non direbbe nulla, sottolinea Carlo Sini, citando Merleau-Ponty; eppure, nonostante la necessità della sua presenza, la pratica del silenzio sembra essere un’esperienza piuttosto rara a trovarsi.

L’incontro con il silenzio appare gravoso, difficile da tollerare se non si è abituati ad esso (e in certi momenti lo è pure se si è fatta pratica).

Qualche volta, mentre stavi con qualcuno, forse è capitato anche a te di sentire l’esigenza di dover riempire il silenzio.

In quelle occasioni forse anche tu lo hai percepito come un vuoto sgradevole, che andava riempito in qualunque modo purché fosse.

In questo tipo di esperienze molto spesso il vuoto percepito inizialmente rimane tale, anche quando apparentemente è stato riempito di parole.

Alle volte questa sensazione permane proprio perché, paradossalmente, non si è riusciti a tollerare il silenzio, cioè non si è riusciti a concedere al silenzio il tempo necessario perché il vuoto potesse diventare fertile, e con ciò dare il suo frutto.

Quando fra le persone non c’è grande confidenza, simili esperienze tendono a verificarsi più frequentemente.

Viceversa, quando il legame è profondo e l’intesa è sicura, è più facile che si verifichi quest’altro tipo di esperienza: il silenzio non è più niente che debba essere tollerato, non c’è niente che debba essere riempito, non c’è niente che divida; c’è solo la libertà di poter stare, insieme, sentendo e sentendosi.

Questa sensazione può durare anche lunghi periodi di tempo. Alle volte può capitare anche di fare lunghi viaggi senza proferire parola, e ciò nondimeno si ha la sensazione di godere appieno della compagnia dell’altro.


Il legame indissolubile fra la parola e il silenzio è originario, è fondante, è vitale; eppure, dimenticarsi del secondo, concentrandosi solo sulla parola, è qualcosa che accade di continuo, è un rischio sempre presente.

Gli antichi erano ben consapevoli di questi pericoli. Plutarco, ad esempio, scrisse di questi temi in un testo dal titolo L’arte di ascoltare.

L’opera inizia con una riflessione sul concetto di libertà.

Libertà, dice Plutarco, non significa poter fare tutto ciò che si vuole, come erroneamente si potrebbe pensare. Libertà, egli dice, è possedere la giusta padronanza di sé, maturata attraverso un’adeguata educazione.

Quando tale padronanza è assente, nell’illusione di essere liberi, si finisce per cadere schiavi sotto la dittatura delle passioni.

La capacità di contenere ed indirizzare se stessi è la medesima che è necessaria per poter praticare l’arte dell’ascolto.

I due elementi (padronanza di sé e ascolto) si alimentano l’un l’altro in un processo circolare che li sostiene e li fa crescere insieme.

Per questo motivo, dice Plutarco, è fondamentale che i giovani siano iniziati precocemente a questo tipo di esperienze. Da parte loro, gli adulti devono avere molta cura nella scelta delle parole che decidono di utilizzare, poiché esse avranno un impatto profondo sullo sviluppo futuro delle nuove generazioni.

Da un lato, dunque, vi sono le parole; dall’altro, vi è il silenzio, nel quale solo esse possono essere ascoltate.


Come ti dicevo, però, non sempre questi due elementi (la parola e il silenzio) sono entrambi presenti.

Spesso le persone non parlano le une con le altre, spesso lo fanno le une sulle altre. Quando questo accade, manca il silenzio, e con esso l’ascolto.

Alle volte può sembrare che le persone si stiano ascoltando, perché mentre una parla l’altra tace, ma è solo un’illusione: mentre una delle due parla, l’altra sta già pensando a cosa rispondere (nella sua mente non c’è silenzio, non c’è ascolto).


La pratica del silenzio, l’arte dell’ascolto, non è qualcosa di puramente passivo, sottolinea Plutarco. Ascoltare, egli dice, è esercizio, è attività, è concentrazione, è intenzione. E precisa che non si ascolta solo con le orecchie, si ascolta con tutto il corpo.

Oggi sappiamo che le posture che assumiamo e le espressioni che manteniamo mentre ascoltiamo qualcuno sono qualcosa di importante non solo per una questione di educazione, lo sono anche per quanto riguarda le modalità di elaborazione dell’informazione.


L’arte di ascoltare si apprende per mezzo del silenzio: quando stiamo dialogando con qualcuno evitiamo di rispondere subito, dice Plutarco, diamo il tempo al nostro interlocutore di aggiungere o modificare qualcosa di quanto detto (qualora lo ritenga opportuno); diamo il tempo a noi stessi di accogliere la parola che abbiamo appena ricevuto, così che essa possa rivelarci appieno i suoi segreti.


Ai nostri giorni sembra essere sempre più diffusa l’idea che per comunicare bene occorra primariamente conoscere bene le giuste tecniche, le giuste sequenze e le giuste modalità per poterlo fare.

Tutto ciò è certamente importante, e infatti anche Plutarco ne L’arte di ascoltare riconosce il valore degli aspetti formali, stilistici e tecnici della comunicazione.

Al tempo stesso, egli dice, prima ancora della forma, dobbiamo occuparci del contenuto; e cioè: prima dobbiamo assicurarci di avere a che fare con un contenuto di valore, poi possiamo occuparci della sua forma.

La precisazione di Plutarco è di inestimabile valore, perché quando la ricerca della e sulla forma diventa fine a se stessa, fino a farci dimenticare il contenuto, corriamo il rischio di trovarci improvvisamente smarriti, in balia delle illusioni linguistiche (o comunicative in genere) e dei loro effetti.


Mentre leggevo il testo di Plutarco pensavo che in qualche modo è possibile fare una similitudine fra le parole e il cibo.

Di quali parole ci nutriamo? Le scegliamo? Quanto ce ne nutriamo? Le mastichiamo per bene? Le gustiamo? O le buttiamo giù, senza neanche sentirne il sapore? Ci diamo il tempo di digerirle prima di cercarne delle altre?

Così come il cibo, anche le parole possono essere rimesse.

Alcuni lo fanno riversando sugli altri qualunque cosa passi loro per la mente, descrivendo la cosa come il segno della propria autenticità e del proprio essere veri e senza filtri. La verità è che, così come per il cibo, anche in questo caso non è un bello spettacolo (né per se stessi, né per gli altri).

Il silenzio e la parola, dunque.

Attenzione, però: vi sono diversi tipi di silenzio.

Vi è il silenzio sapiente (il vuoto fertile, così lo abbiamo chiamato), vi è il silenzio sterile (quello che non accoglie né rivela alcuna parola), vi è il silenzio praticato come scelta e vi è il silenzio imposto.

Potremmo dire, dunque, che del silenzio esista un lato luminoso (quello nel quale, come in un vuoto fertile, tutte le possibilità si condensano prima di espandersi rivelando in tal modo i significati in esso contenuti) ed un suo lato oscuro (il silenzio imposto, la censura, il silenzio che mortifica, cambia e uccide la parola).


Allora, facendo nostro l’ammonimento di Plutarco, impegniamoci tutti ad ascoltare (prima ancora che a parlare), perché, come egli dice, “il primo passo per vivere bene è saper bene ascoltare”.


Pubblicato il 05/02/2021

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