“Nel suo romanzo La réponse du Seigneur, Alphonse de Chateaubriant paragona la mente umana a una farfalla che assume il colore delle foglie su cui si posa: 'Si diventa ciò che si contempla', dice”.
Queste parole citate da Piero Ferrucci in Crescere Teoria e pratica della Psicosintesi sono un invito ad una speciale pratica della consapevolezza.
Il punto è il seguente: non importa che sia qualcosa scelto da altri (in maniera più o meno sottile) o che sia qualcosa scelto da noi stessi (in maniera più o meno consapevole), in entrambi i casi ciò su cui orientiamo la nostra attenzione ha un effetto reale sulle nostre vite.
Volendo utilizzare l’espressione di Chateaubriant potremmo dire che siamo portati a realizzare un processo di identificazione con tutto ciò contempliamo (ancor di più quando questa contemplazione è ripetuta nel tempo).
Ciò significa che tendiamo a sentire in linea con le emozioni che contempliamo, tendiamo a pensare in linea con le parole che contempliamo, tendiamo ad agire in linea con le immagini che contempliamo, arrivando infine a perdere ogni distinzione fra noi stessi e le emozioni, le parole, le immagini oggetto della nostra contemplazione.
Quando tutto questo accade senza che abbiamo coscienza dell’identificazione in atto e senza che nel farsi di tale esperienza esercitiamo la nostra volontà (intesa non come forza contrapposta ad altre forze, ma come atto di orientamento delle forze presenti nel campo esperienziale) finiamo - dicevo - per divenire prigionieri di quegli stessi elementi che stavamo contemplando.
In questi casi non siamo più noi ad orientare le nostre vite ma finiamo per viverle essendo mossi da altro.
Riguardo a questa particolare concezione della volontà (anch’essa connessa ai processi di identificazione e di disidentificazione) riporto un esempio citato dallo stesso Ferrucci.
Per spiegare la natura degli atti di volontà (così come sono intesi dalla Psicosintesi) il nostro Autore riporta un aneddoto della vita di Herbert von Karajan.
Volendo insegnare ai propri allievi la distinzione fra il fare faticoso e il dirigere senza sforzi, il grande direttore d’orchestra - scrive Ferrucci - raccontò loro di quando da bambino prendeva lezioni di equitazione.
La notte precedente al primo salto ad ostacoli - disse von Karajan - non riusciva a prendere sonno tanto grande era la sua preoccupazione.
Si chiedeva sconsolato come avrebbe mai potuto sollevare quell’enorme cavallo da terra e portarlo oltre l’ostacolo.
Infine capì qualcosa che lo illuminò: non doveva sollevare nessun animale, gli bastava mettere il cavallo nella giusta direzione e poi sarebbe stato lui stesso a sollevarsi da solo.
La stessa cosa - aggiunse - accade con l’orchestra.
Se ci si identifica con lo sforzo, allora il fare diventa faticoso.
Viceversa, se ci si identifica solo con il decidere, allora si ha un dirigere senza sforzo (la volontà).
Questo certo non significa che la volontà (così come è intesa nella Psicosintesi) non comporti impegno o che rappresenti un’assenza totale di fatica.
Il punto è un altro, e cioè - come scrive Ferrucci - che “possiamo veramente volere soltanto dal centro del nostro essere”.
Quando questo accade, allora - in qualche modo - siamo in grado di affrancarci dagli sforzi che pure possono essere presenti.
Sottolineo - per inciso - che tutto ciò mi sembra mostrare una certa similitudine con quanto afferma Viktor Frankl a proposito della dinamiche relative alla dimensione del significato (dimensione verso la quale tutti noi - secondo la Logoterapia - siamo portati a muoverci nel corso della nostra esistenza).
Dopo questo brevissimo inciso, torniamo al punto da cui siamo partiti, e cioè al fatto che “si diventa ciò che si contempla”, così abbiamo detto.
Possiamo contemplare le nostre sensazioni corporee, le nostre idee, le nostre emozioni, i nostri desideri e così facendo possiamo identificarci con tutti questi elementi; e questa è un’opzione.
Oppure, disidentificandoci da ciascuna di queste cose (cioè riconoscendole come qualcosa di distinto dal nostro vero sé) possiamo contemplare il centro del nostro essere e identificarci con esso.
Si tratta, come si può comprendere, di un allenamento alla consapevolezza, primariamente alla consapevolezza delle proprie contemplazioni (per usare ancora una volta l’espressione di Chateaubriant) accompagnata dalla consapevolezza dei relativi processi di disidentificazione e di identificazione.
Nello specifico Roberto Assagioli (il padre della Psicosintesi) proponeva un allenamento rivolto allo sviluppo della consapevolezza espressa nella seguente formulazione: “Io ho un corpo, ma io non sono il mio corpo; io ho delle emozioni, ma io non sono le mie emozioni; io ho dei desideri, ma io non sono i miei desideri; io ho dei pensieri, ma io non sono i miei pensieri”, "Io sono il sé, un centro di pura autocoscienza”.
Non si tratta tuttavia di operare un’azione definitiva a favore di un tipo di identificazione o di agire per un altrettanto definitivo processo di disidentificazione.
Il punto è un altro, e cioè la flessibilità con la quale questi due processi (identificazione e disidentificazione) possono realizzarsi quando sono orientati dinamicamente dalla consapevolezza e dalla volontà.
Se hai piacere di saperne di più, per ulteriori approfondimenti ti rimando al già citato testo di Ferrucci.
Buona lettura.
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